Un poeta nicaraguense di cui non mi ricordo il nome ha scritto "Forse, dobbiamo lasciare il paese riposare dai nostri terribili amori, e forse il paese ci perdonerà un giorno". Dobbiamo avere pietà dei dittatori. Sono come genitori troppo protettivi che finiscono per fare l'infelicità dei loro figli, perché gli hanno voluto troppo bene. Un dittatore è un don Quijote che ha voluto raddrizzare tutti i torti, e che ha finito per macchiarsi le mani con sangue, quando la realtà ha pugnalato il suo sogno alle spalle. Forse, avrebbe fatto meglio lasciar governare a Sancho...
Sono stata una di quelli che sono stati sedotti da quel sogno di grandezza, e che per l"opinione pubblica buonista, sono segnati dall'oprobbrio di "collaborare" alla repressione. A volte, pero, penso che le più grande vittime della dittatura stiamo noi: quelli che ci abbiamo creduto...
Pensavo di lottare per un ideale. Ho finito per commettere un crimine atroce.
Sono tanti i libri scritti intorno a un crimine fittizio. Molti, i libri scritti dalle vittime o quelli che si spiacciono per tali. Pochissimi, invece, i libri scritti dai criminali. Molti di loro non ne sarebbero semplicemente in grado; forse, non sanno neanche spiegare a se stessi la ragion d"essere del loro delitto. Altri si barricano dietro una negazione ripetuta come una preghiera. Altri ancora, vorrebbero dimenticare ed essere dimenticati. Ma anche se si fossero decisi a scrivere, sarebbero troppo tentati a scrivere ciò che il pubblico si aspetta da loro. Una giustificazione. Le lacrime da Maddalena. Perché ciò che interessa il pubblico è, alla fine, come ci si sente. Ti sei pentita? È una domanda che mi faccio anch'io; forse ho scritto questo libro solo per conoscere la risposta. In questo caso, ho fallito.
Immaginiamo il pentimento come una conversione nello stile dei quadri barocchi. Ma per noialtri che Dio e il diavolo prendono i turni per corteggiare, il pentimento è uno stato d'animo che va e viene: un dubbio appiccicoso, uno smarrimento repentino nelle braccia di un amante, una bottiglia di troppo che ogni tanto beviamo. Possiamo pentirci oggi ed essere orgogliosi del crimine compiuto domani. È grande, infatti, la tentazione di portare quel sangue sulle mani come un segno di distinzione. Allora, parliamo del nostro crimine volentieri, facendo passare per una azione calcolata ciò che era, in verità, un gesto disperato, e questo, per il puro piacere di sembrare peggiori di quanto stiamo. La verità più cruda, pero, è questa: quando commettiamo un crimine per passione, la nostra passione sopravvive sempre al crimine, così da lasciare pochissimo spazio al pentimento. Una donna che ha ucciso suo marito mi ha detto: "Se lui tornasse a vivere, lo rifarei ancora. No, hai capito male: non è che lo ucciderei. Volevo dire che mi sposerei con lui un'altra volta, anche se mi tornasse a tradire. Di notte sogno di fare amore con lui..." Anch'io "lo rifarei ancora". Farei, ancora, qualsiasi follia per riafferrare quel ideale in cui, ormai, fatico a credere...
Ma forse, servirebbe a qualcosa mettere per iscritto la anatomia del mio crimine. Forse, la dissezione sarebbe utile a qualche dottore... Forse non chiedo troppo sperando che qualcuno, leggendo queste pagine, capirà ciò che io, al scriverli, non ho ancora capito.
C'è stato un tempo quando andavo ogni giorno al Cimitero Monumentale di Torino per pulire dalla polvere il Monumento ai caduti della Repubblica Sociale Italiana, l'effimera repubblica degli ultimi due anni del fascismo, nata agonizzante. Per la maggior parte degli italiani, fascismo significa razzismo, significa le camere a gas. Sarebbero sorpresi se sapessero che per noi che ci consideravamo fascisti, era tutt'altra cosa. E mentre è vero che molti di coloro che oggigiorno si chiamano fascisti non hanno mai letto la dottrina fascista e si dimostrano più ignoranti degli antifa, ce ne sono, nell'"ambiente", delle persone per chi, come per me in quel tempo, fascismo significa innanzitutto tradizione, radici, dovere, onore, lealtà. Non sapevo ancora che anche le parole più belle hanno il suo lato d'ombra. Era del suo lato di luce che mi ero innamorata, della sua poesia. Il fascismo, per me, era una fede più che una dottrina, la fede rivoluzionaria di Mussolini che non ha mai rinunciato alle sue convinzioni socialiste. La fede difesa ad oltranza da un esercito di adolescenti, quando tutti gli altri avevano tradito. Ed eccomi davanti a loro, i caduti torinesi della RSI: mille anime nei loculi stretti, uomini, ragazzi, ragazze, un bambino di 12 anni. Tutti ammazzati, per lo più, a guerra finita. Per me, erano un mito. Morire per un ideale, combattere quando non c'era più speranza, combattere non già per vincere, ma per perdere con dignità. Un reduce mi ha raccontato che loro sapevano già nel 43 che la guerra era perduta, e si sono arruolati sapendolo. I reduci erano i miei eroi e i caduti, i miei santi. Pregavo a Mussolini come si prega a Padre Pio; davanti ai caduti, facevo il saluto romano e poi, il segno della croce. Un giorno ho fatto una riflessione: se loro hanno dato la vita per un fascismo morente, niente mi impedisce di fare lo stesso per un fascismo morto. Ho senz"altro giurato di difendere il Duce e il fascismo fino all'ultima goccia di sangue. Avreste capito che ero, ormai, più che fanatica: ero impazzita. Il mio rapporto con il fascismo era, tra l'altro, lo stesso che il mio rapporto con Dio. A diciotto anni mi sono convertita al cattolicesimo tradizionalista, cattolicesimo che conserva ancora la messa in latino, la preghiera contemplativa, lo spirito delle crociate, l'odio all'eresia; cattolicesimo medievale, cattolicesimo che un giornalista ha definito "alla destra di Dio". A volte penso che stiamo fanatici per indole prima di incontrare l'oggetto del nostro fanatismo, così come un ragazzino è innamorato dell'amore prima di incontrare una ragazza che gli piace; se il caso avesse deciso altrimenti, si avrebbe, sicuramente, innamorato di un'altra. In me, il bisogno di credere ha preceduto la fede; non potevo riconciliarmi all'idea di un mondo senza senso, di una vita che non fosse eterna. Prima di convertirmi definitivamente, pregavo spesso così: "Gesù, fammi credere che tu esisti. E se non è questa la tua volontà, fammi almeno sperare che tu esisti. E se neanche questa è la tua volontà, fammi amarti comunque". Amare un Dio che non esiste. Morire per un regime caduto settant'anni fa... Neanche una pazza poteva desiderarlo se, al fondo del suo cuore, non sperasse contro ogni speranza. Che Dio esiste. Che il fascismo è possibile ancora. Il mio fascismo e il mio cattolicesimo oltranzista erano, peraltro, diventati un'unica fede. Mi avvicinavo ai loculi dei caduti e, toccandoli con la mano, li pregavo di concedermi una morte come la loro. Le preghiere sono pericolose: posso dire, non già basandosi sulla fede, ma sull'esperienza, che gli spiriti ci ascoltano sempre, anche se spesso il risultato non è quello che abbiamo previsto. Non sono morta, ma ho potuto constatare quanto costano le idee, quando cerchiamo di realizzarle nella realtà. E ho scoperto, come tanti altri prima di me, che sopravvivere è a volte più difficile che morire...
Un giorno stavo leggendo su Internet di una guerra civile in un piccolo paese dell'America Centrale, Nicaragua, "il paese di laghi e vulcani", dove il governo fa sua l'eredità di Sandino, il "generale degli uomini liberi" che negli anni trenta ha difeso la sovranità della sua Patria dagli Stati Uniti. Incuriosita, ho cominciato a leggere. Ho letto un articolo dell'opposizione, che arrivava ad accusare il governo sandinista del genocidio, parola certamente magniloquente, visto che si trattava di qualche centinaio di morti. Poi ho letto un discorso del presidente, Daniel Ortega. Ho visto ripetute le parole Patria, socialismo, fede, onore, sacrificio, razza. Mi è bastato per decidermi da che parte stavo. Volevo partire subito "per uccidere i partigiani". Volevo essere in tempo "per perdere almeno questa guerra", già che la Seconda Guerra Mondiale era perduta prima che io nascessi. Non volevo perdere il mio appuntamento con la storia. E non l'ho perduto... Adesso vorrei incontrare di nuovo qualche reduce della Repubblica Sociale per chiedergli: "Come ha potuto vivere con questo per settant'anni? Come ha potuto non perdere il suo ideale, non dubitare di aver perso la sua anima? E come faccio, io, a convincermi che, nonostante tutto, HA VALUTO LA PENA tutto ciò che è stato fatto nel nome della mia fede, già che non posso, e non voglio, abbandonarla?"
Scrivo queste righe per quei ragazzi che, in Italia, ho chiamato camerati. Loro hanno letto gli stessi "libri di cavalleria andante" che ho letto io; hanno venerato gli stessi atti di eroismo. Adesso voglio contargli delle cose che forse nessuno gli ha detto. Adesso che sono rimasta sola, spero, forse, da loro una impossibile parola di conforto, che nessun confessore mi può dare...
Sapete che cos'è una guerra civile? Leggendo della Repubblica Sociale, mi dipingevo un quadro in bianco e nero. I repubblichini erano i buoni; i partigiani erano i cattivi, quelli che stupravano le donne e mettevano le bombe nelle canaste di pane. Una signora mi ha detto, durante un incontro con i reduci: "Mio padre è stato accusato di fucilare 30 partigiani. Spero che non sia vero. Spero che ne ha fucilati di più." All'epoca mi era piaciuta molto la battuta. Ma noi non sapevamo una cosa: una guerra civile spezza la società in due campi, questo si, ma non bisogna immaginare che questi due campi interagiscono solo sul terreno di combattimento. Ci si conosce. Ci si vive tutti insieme. Di fronte alla mia casa, era la casa di un ragazzo di diciotto anni ucciso dalla polizia. Come è stato ucciso? I parenti dicevano sempre: è stato ucciso mentre portava acqua ai suoi compagni asserragliati nell"università, è stato ucciso mentre usciva dalla casa della sua zia, dove si era nascosto. E cosi via... Tutti dicevano: era disarmato. Non è vero. Avevano armi americane. Una di loro mi ha detto: "Quando abbiamo cominciato a combattere il governo, avevamo armi artigianali... poi, due settimane dopo, sono arrivate le armi, tante armi, come per magia". Non erano delle vittime innocenti. Hanno torturato, hanno bruciato vive delle persone. Quel ragazzo di diciotto anni è stato, probabilmente, ucciso con le armi in mano, nella sua università occupata. Eppure resta il fatto centrale, inevitabile: era un ragazzo di diciotto anni ed è stato ucciso. C'è stato un funerale dove suo fratello è andato, e ha perso il suo lavoro in un'agenzia di sicurezza, a causa di esserci andato. E adesso io vivevo di fronte a questo fratello. Noi, giovani militanti di Forza Nuova, non avevamo, certo, nessuna pietà per un Dante di Nanni di turno. È facile non avere pietà per un ragazzo ucciso settant'anni orsono. È facile, ad esempio, dire: i partigiani se lo meritavano, al confino ci si stava bene, le rappresaglie erano una misura legale... Sarebbe diverso si a essere stato fucilato fosse stato un tuo vicino, un tuo compagno di classe nelle medie. È facile dire: mi piacciono le SS, ma non approvo di tutto ciò che hanno fatto. È facile perché si tratta, ormai, di storia lontana. Non ci sono più scelte da fare. Se tu fossi nelle SS, settant'anni fa, non ti basterebbe, certo, dire, "non approvo di tutto ciò che le SS fanno", per avere la coscienza tranquilla. Capitemi: io vivevo di fronte alla casa di quel ragazzo ucciso, io dovevo guardare la sua famiglia negli occhi ogni giorno. Suo fratello cominciava a ubriacarsi la mattina presto, e una notte ho chiamato la polizia, perché le sue imprecazioni inintelligibili mi facevano paura. Non sapevo ancora del suo fratello minore. Gli avevo addirittura chiesto di scrivermi una referenza per aprire un conto in banca. E lui l'ha fatto. La sua mano tremava, aveva ripetuto la stessa riga due volte, ma l'ha fatto. Mi odiava, ma mi ha scritto una referenza per la banca perché aveva paura di me. Del suo fratello ho saputo dopo. Me lo ha raccontato sua suocera. Per quanto a lei, si metteva spesso una maglietta con il rostro del Comandante. Sicuramente non era sandinista, ma voleva dimostrare al mondo intero che non ci stava con i ribelli. In simili contesti, molte persone si schierano con gli uni o con gli altri dipende a chi sta vincendo in quel momento. Non schierarsi è pressoché impossibile. Nessuno può permettersi il lusso di dire: "la politica non mi interessa". La politica non è ormai più sul Facebook, è sulla strada dove vivi. Tutti hanno FATTO qualcosa, anche se fosse solo dare da mangiare a qualcuno, aprire o chiudere una porta, parlare o tacere. Se qualcuno dice di non avere un'opinione, è una di quelle persone che pensano solo a salvarsi la pelle. La signora pensava solo a salvarsi la pelle. "Il ragazzo è stato ucciso durante un assedio" mi ha detto, "ma sono cose vecchie, due mesi sono già passati". Quando si muore ogni giorno, un morto di due mesi fa è un morto vecchio... Ma sempre un morto. Quando l'ho saputo, ho sentito la terra evaporare da sotto i miei piedi. A casa mia arrivava spesso un ragazzo della polizia volontaria. Mettevamo la musica, cantavamo le canzoni sandiniste. Quelle canzoni a suon di cui marciavamo. E il mio vicino ci ascoltava. E il mio fidanzato poteva ben essere quello che ha sparato al suo fratello... Ho pensato di andare in chiesa. Poi ci ho ripensato, e sono andata a comprare liquore.
Si potrà dire che della morte di quel ragazzo, non ero minimamente responsabile. Era già morto quando sono venuta in Nicaragua. Eppure, l'hanno ucciso i miei. Se ci pensavo bene, l'avevano ucciso per difendere me. Perché io possa camminare per la strada senza aver paura di un attacco terroristico, senza aver paura di essere sequestrata e violentata per il solo fatto di appoggiare il governo. Non potevo certo rinnegare un atto che è stato fatto in difesa mia. Dovevo, quindi, guardare negli occhi il fratello di un diciottenne che NOI avevamo ucciso. E sapere che anche lui mi vorrebbe morta...
La folla del piazzale Loreto non è apparsa dal nulla. C'era lì, sicuramente, una signora che, qualche giorno prima, vendeva, con un sorriso, delle pizzette ai repubblichini. Un vicino, una sorella, un uomo che hai incontrato sul treno. Quando vivi in un paese in guerra civile, devi abituarti al pensiero che la signora che ti vende delle pizzette, non vede l'ora di vederti morto. Avevo un'amica russa che viveva in Nicaragua da tanti anni. Era una poetessa e ricercatrice, e aveva molti amici tra gli intellettuali. Un giorno, lei mi ha chiamata, sconvolta. Le era appena stato riportato che una delle donne che lei credeva amica sua, aveva detto in pubblico che "non vede l'ora quando vengano gli americani e appendano tutti i sandinisti sui lampioni". Il primo pensiero della mia amica è stato per Nicaragua, per la sua Patria adottiva. "Come si permette di augurare che un esercito straniero occupi il nostro paese? Ma si può essere canaglia a questo punto?" Poi, si è lamentata: "Ma che cosa le ho fatto? Perché mi vuole vedere morta, a me? La pensavo amica mia... Abbiamo parlato tante volte di poesia, insieme. Avrei capito si lei avesse qualche parente, qualche amico morto dalla parte dei golpisti...qualcuno che ha partecipato al mancato colpo di Stato. Ma no, lei è russa come me. E adesso mi vuole vedere appesa su un lampione, solo perché io non la penso come lei!" Mi chiedeva, ancora: "Ho voglia proprio di ammazzarla... Pensi che vale la pena, andare in carcere per una canaglia come lei?" "Ho voglia di ammazzarla"; può sembrare estremo. Ma abbiamo pensato cosa può sentire una persona quando il suo ex amico la vuole vedere appesa la testa in giù?
A noi in Italia, il piazzale Loreto inspirava orrore. Nella casa di Mussolini, ho incontrato un reduce che veniva a Predappio ogni anno. Quando l'uomo che faceva la visita guidata ci ha parlato del piazzale Loreto, quel signore novantenne ha pianto. Sicuramente, ha pianto ogni anno per settant'anni. Lui sul piazzale Loreto c'era stato, ed era andato via dopo 5 minuti, perché si era sentito male. Il passato ci fa ancora orrore. Ma possiamo immaginare cosa può sentire una persona che lo intravede nel suo futuro?
Un'altra amica è stata sequestrata per 24 ore, con altri 5 ragazzi del partito sandinista. Li hanno tenuti a tutti a punta di pistola. Poi gli hanno detto che volevano portarli in una casa di campagna per essere ulteriormente interrogati. I ragazzi si sono ribellati. Hanno detto: "se ci volete ammazzare, ammazzateci qui, perché noi in una casa di campagna non ci andiamo". Questo gli ha salvato la vita. Fuori del palazzo, infatti, c'erano i loro vicini, la gente del quartiere che li conosceva e chiedeva la loro liberazione. E anche se si trattava di una zona controllata dai golpisti, quelli non li potevano uccidere davanti a tutta quella gente, senza danneggiare la propria immagine. Li hanno liberati. La mia amica Karen, per vari mesi dopo il sequestro, non era più uscita di casa...
Quando ci stiamo conosciuti, lei mi ha chiesto di insegnarle l'inglese. Diceva che voleva andare all'estero per una vacanza, solo per un mesetto... Pero sapevamo tutte e due che lei voleva scappare. A me disgustava molto l'idea di insegnarle inglese, ma dopo quello che lei aveva vissuto, non potevo certamente darle di vigliacca...
Solo i racconti di coraggio passano alla storia. Nessuno vuole raccontare di aver avuto paura, non quando si canta ogni giorno il disprezzo alla morte, non quando si canta "i figli di Sandino non si vendono e non si arrendono", non quando si grida "Patria o morte". Ma la verità è questa: una guerra civile fa paura. Io mi sentivo coraggiosa di giorno. Di notte, no. Di notte nessuno vuole morire. Mi faceva paura sentir gridare "viva Nicaragua libera!" di notte, fuori della mia finestra. Libera da chi? Da noi. Non potevo dormire più; la mia porta non si chiudeva bene... Ho finito per cambiare casa. Nella nuova casa, alle tre di notte, spari. "Viva Sandino!" Anch'io ho gridato "viva Sandino!" Di giorno, pero. Alle tre di notte, uno non ha voglia di ascoltare "viva" niente, neanche fosse "viva Pinocchio". Perché alle tre di notte tutti i "viva" suonano "morte", sopratutto si sono accompagnati dagli spari, e non puoi sapere cosa sta succedendo perché si è spenta la luce nel quartiere. Su una sola cosa non puoi equivocarti: sono spari di arma da fuoco, perché i fuochi d'artificio sono stati proibiti per ragioni di pubblica sicurezza. Brutale ironia. Tutte le sirene delle macchine cominciano a suonare... "Stronzi di merda, vista la situazione che viviamo, avreste potuto disattivare le sirene. Così a causa di tre spari non dormiamo più!"
Pian piano ci si abitua a tutto, anche alla morte vicina. Una volta ho chiesto alla mia vicina adolescente se ha sentito sparare. "Certo che si" ha detto lei "ma il mio letto è dietro il muro, a me non mi arriverà; mi sono riaddormentata..." Non è coraggio. È abitudine... Con il tempo mi ero abituata anch'io. La paura, tra l'altro - ne sono convinta - e una questione soprattutto del corpo, della sorpresa del corpo. La persona più impavida al mondo ha una reazione involontaria quando sente abbaiare un grosso cane dietro di lei, o quando sente uno sparo nella notte. Poi viene un tempo quando il corpo non si sorprende più...
Karen, pero, non ha mai potuto esorcizzare la paura. Dopo essere stata sequestrata, lei ha abbandonato il suo lavoro e ha cominciato a fare acchiappasogni a casa, acchiappasogni bellissimi. Giustamente in quel momento, il governo organizzava un festival di arti e mestieri, e lei è stata invitata a partecipare. Immediatamente, tutti i partecipanti hanno ricevuto minacce su Facebook: "collaborate con un governo genocida, avete le mani sporche di sangue". Alcuni sono stati picchiati. Molti hanno rinunciato. Alla mia amica la dovevano filmare a casa sua per un video che pubblicizzava l'evento. Quel giorno lei mi ha mandato un messaggio: "Il mio marito è al lavoro; sono sola a casa aspettando i giornalisti del canale... e adesso sono venuti loro, i golpisti del mio quartiere, sono venuti con tre macchine e si sono messi nella casa davanti alla mia... Ho paura." Le ho detto di chiamare la polizia. Lei ha risposto, con tanto di amarezza: "la polizia non può garantire la sicurezza di tutti i cittadini". Ho insistito di venire a casa sua con un taxi. Non potevo certamente difenderla, ma potevo starle vicino. Avevo sperimentato, in altre occasioni, la paura atroce, paura che ti da voglia di vomitare, paura che ti fa tremare le mani. Quando si ha paura così, è insopportabile rimanere da soli. Sono rimasta con lei per alcune ore. Karen aveva un grosso cane dolcissimo che teneva dentro casa; nel giardino, lo potevano avvelenare... Mentre aspettavamo, lei ha coperto la finestra con una grande tela nera. Non voleva che la pubblicità mostrasse la vista dalla sua finestra. Non voleva che tutti i golpisti del paese sapessero dove lei vive... Alla fine, quando i giornalisti sono venuti per filmare il video, hanno giudicato che non c'era sufficiente luce, e hanno filmato con la porta aperta. Ho visto la pubblicità dopo. La mia amica faticava a parlare dei suoi acchiappasogni, ma era ovvio che pensa a una sola cosa: alla porta aperta...
Poi è venuto il giorno dei morti, il 2 novembre. I miei amici l'avevano celebrato ogni anno con la loro famiglia, andando nella città di Rivas, dove erano sepolti i nonni. Quel 2018, invece, i genitori di Karen hanno rifiutato di venire con loro. Per mesi, la famiglia era stata fisicamente divisa. I genitori vivevano nella zona della capitale occupata dai golpisti. Si poteva passare solo attraverso le barricate, pagando ogni volta un non piccolo "contributo volontario" ai "pacifici studenti" che facevano la guardia con arma in mano. Ma per i militanti sandinisti trovarsi in quella zona significava morte sicura. Karen ha rivisto i suoi genitori solo quando le barricate sono state rimosse dalle forze dell'ordine. Ma ha scoperto che ormai una divisione più profonda ha avuto luogo. I genitori si erano schierati con i ribelli. Quando lei gli ha raccontato di essere stata sequestrata, loro hanno scrollato le spalle: "Sei sicura? Sei sicura che non è stata la vostra Gioventù Sandinista?" Karen ha risposto di essere, di fatto, sicurissima che loro non avevano sequestrato se stessi. Allora i genitori hanno risposto, senz'essere affatto perturbati: "Va bene, ma non ti hanno uccisa, vero?" Hanno voluto ucciderla, l'avrebbero uccisa come avevano ucciso tanti altri. Era troppo poco perché i genitori avessero un minimo compassione per la propria figlia, che "se l'era cercata" appoggiando "la dittatura".
Tra l'altro, non facevano che ripetere il ritornello costante dei golpisti. Non sono stati loro a uccidere. Casomai le forze dell'ordine hanno sparato a se stessi. Una storia davvero rara: centinaia di poliziotti, funzionari del governo e militanti del partito che hanno sparato a se stessi... Ma per chi è accecato dal fanatismo, non ci sono storie troppo rare per essere ingoiate. Sopratutto in un contesto di una propaganda abilissima, che demonizzava i sandinisti a tal punto che non erano più considerati concittadini e si dubitava fortemente se fossero o no esseri umani. Il governo sandinista non ha mai voluto togliere la libertà di stampa, ed è stata la stampa, ben pagata da fondi statunitensi, a diventare l'arma più mortifera dei golpisti. Hanno commesso, è vero, qualche errore mediatico. Ad esempio, pubblicare un video dove un impiegato del municipio, Bismark Martinez, era da loro brutalmente torturato. Per mesi, i sandinisti hanno cercato i suoi resti mortali... Era stato visto vivo per l'ultima volta in una chiesa; le chiese, infatti, spesso si prestavano per diventare depositi di armi, rifugi dei ribelli, e prigioni per i sandinisti da loro sequestrati. Ho sussultato quando ho sentito, per la radio, che le ossa di Bismark sono state, finalmente, ritrovate... Era uno di tanti, ma in qualche maniera, a causa di quel video atroce, filmato dagli stessi assassini, era diventato il simbolo di tutti loro...
Ma anche i golpisti avevano centinaia di morti. Una volto sono entrata in discussione con un cameriere in un bar. Stavo visitando Leon, una bellissima città coloniale. Era lì che ho visto, per la prima volta, i danni causati dalla guerra in tutta la sua nudità. Alcuni edifici bruciati; altri, orribilmente sfregiati da bombe artigianali. Leon è una città famosa per i suoi stregoni, le sue leggende di donne che, da fantasmi, si vendicano cogli uomini che le hanno tradito... Adesso, vuota, sfigurata dalla guerra, la città sembrava davvero popolata da schiere di forze maligne. La proprietaria dell'ostello dove mi ero appoggiata era dalla parte dei "ragazzi". Aveva una spiegazione facile: "l'hanno fatto perché non ci lasciavano marciare". Quel cameriere era dello stesso parere: tutti i mezzi sono buoni quando si combatte per "la libertà". A me la rabbia era montata in gola. Ho detto, mi ricordo: "Peccato che sono, adesso, dei "prigionieri politici". Se fosse per me, li avrei fucilato a tutti..." Il volto del ragazzo, allora, è cambiato. Ha ripetuto due volte una sola parola: "tutti, tutti..." e le lacrime gli erano montati agli occhi. Questa sola parola mi è bastata per sapere che anche lui ci era stato, che anche lui ha perso qualcuno: chissà un amico, o un fratello...
Un'altra ragazza ha cominciato a piangere quando le ho chiesto se lei conosceva qualche morto. "Un compagno di classe" ha detto "studiavamo per diventare attori. Poi, quando è cominciata la guerra, di repente si è convertito, è diventato pastore evangelico. Predicava sulle barricate che Daniel Ortega è il diavolo incarnato. Poi un giorno, degli sconosciuti sono entrati a casa sua, e gli hanno sparato." Sicuramente quel attore è stato pagato bene per giocare il suo ruolo; ma ha finito per pagarlo troppo caro.
Alcuni scappavano in Costa Rica. Non avevano previsto che cosa faranno se non riescono a far fuori il governo. Pensavano fosse una cosa veloce... Invece avevano calcolato male. Altri andavano all'estero per ragioni economiche; con la venuta della guerra, il paese è entrato in crisi. Nicaragua era stato il paese più sicuro della regione, un paese prospero dove il lavoro non mancava a nessuno. In pochi anni, il governo aveva costruito un autentico stato sociale... Sulla frontiera, ho incontrato una signora di Honduras che aveva suo marito, ammalato di cancro, ricoverato in un ospedale nicaraguense. Come molti altri, erano venuti in Nicaragua per fare il trattamento gratuito e di qualità. Per essere curati in Nicaragua, non c'era bisogno di avere la residenza; era sufficiente essere malati. Dopo la mia esperienza in Italia, gli ospedali nicaraguensi mi riempivano di entusiasmo. Al pronto soccorso, si aspettava per soli 10 minuti. Tutte le medicine erano gratis. Poi ho visto, con sgomento, il tempo di attesa farsi sempre più lungo; ho visto alcune medicine mancare. Era il risultato delle sanzioni fatte a Nicaragua. Per i sandinisti, che avevano realizzato con tanta fatica queste riforme sociali, era infinitamente doloroso vedere il frutto di un lavoro di dieci anni, essere distrutto in quattro e quattr'otto. Una volta, ho parlato con un uomo anziano, che aveva una cataratta. Mi ha detto: "avrei potuto fare una operazione gratis in qualsiasi momento, in qualsiasi ospedale pubblico, ma da quando è cominciata la guerra, non mangio con sazietà, e il mio livello di glucosio non mi permette di fare un'operazione..." Un'altra volto abbiamo sentito per televisione che un giornale golpista non si poteva più pubblicare, perché gli era mancata la carta. Ho scherzato che il governo avrebbe fatto bene di fornirli con carta igienica... Ormai non era raro che le cose essenziali mancassero, e ne soffrivano sia i sandinisti che i golpisti che avevano scatenato la guerra. Sempre più persone prendevano il pullman per Costa Rica...
Eppure il governo, in mezzo della distruzione, cercava ancora di costruire. Vicino alla carcere, stavano in corso dei lavori per asfaltare un tratto di strada. Ho scherzato (ero in grado, ancora, di scherzare!): "tortura psicologica per i prigionieri politici". Tortura psicologica: vedere che, nonostante tutti i loro sforzi, non hanno potuto distruggere il paese. Che si lavorava ancora. Che si costruiva ancora...
Non dubitavo delle mie ragioni. Ero sandinista e lo sarei rimasta fino alla fine. Il governo non era colpevole della crisi; avevano sempre fatto del loro meglio. Vedevo tutto quello che hanno fatto e continuavano a fare: ospedali, scuole, parchi per bambini. Sopratutto parchi per bambini. La coppia presidenziale aveva dieci figli, e nella protezione speciale dell'infanzia da loro promossa, si intuiva un amore particolare per i bambini. Una volta, passando vicino a una scuola, ho visto fumo, pompieri, polizia, un mucchio di pietre ammassati. Il mio primo pensiero è stato che una bomba si era esplosa. Invece era l'annuale evento di addestramento per gli allievi, nel caso di un terremoto. Un figlio piccolo di Rosario Murillo, la moglie di Daniel Ortega, è morto nel terremoto del 1972. Una volta al potere, si sono impegnati che questo non succeda mai a un altro bambino... I bambini dovevano essere protetti dal momento della loro concezione. Dopo aver vinto le elezioni, Daniel Ortega ha fatto passare una legge che vietava l'aborto in tutti i casi, facendo di Nicaragua uno dei pochissimi paesi senza questo genocidio moderno. I padri che non pagavano il mantenimento dei loro bambini andavano in carcere finché non lo pagassero. La festa della Mamma era una delle più grandi feste nazionali...
A volte mi chiedo: tutte queste conquiste sociali di 10 anni perdono, forse, il loro valore, perché qualche terrorista è stato ucciso senza giudizio? Gli ospedali, le scuole per bambini ciechi, la vittoria sui cartelli di droga, le case costruite per le famiglie indigenti, la luce, le strade e l'acqua potabile che negli altri paesi sottosviluppati sono un lusso, e in Nicaragua non mancano a nessuno... tutto questo da beneficio a centinaia di miglia di persone. Quanto valore hanno queste opere? Hanno più valore di una vita umana? Hanno più valore della vita di chi li ha voluto distruggere? La mia risposta, in quel tempo, era si.
Vedevo la povertà dei miei amici che lavoravano per il governo. Uno di loro, il marito di Karen, veniva al suo lavoro nel parlamento con una macchina così vecchia che le porte non si chiudevano affatto, e dava un passaggio ai suoi compagni di lavoro, che non avevano nessuna macchina. Alcuni hanno avuto motorini, che durante la guerra sono stati rubati o bruciati... Quando vedevo questi ragazzi sandinisti andare sullo skateboard nel parco pubblico, e quando ricordavo i politici degli altri paesi dove ero vissuta, con le loro barche a vela che costavano mezza nazione, sapevo di non essermi sbagliata. Sapevo che solo qui i politici si sacrificavano, solo qui davano tutto senza chiedere niente, esattamente come avevo sognato in Italia. Forse, pero, chiedevano qualcosa. Chiedevano la lealtà. E precisamente questo gli è stato negato...
Quando ero appena venuta in Nicaragua, ho avuto, a prima vista, l'impressione che il governo godeva ancora della stessa stragrande popolarità che l'aveva portato a vincere le elezioni. Uno dei miei primissimi giorni nel paese, mi trovavo sul corso Hugo Chavez davanti a una tribuna, quando una grande folla mi era apparsa dietro. Marciavano a suon di musica con le bandiere del partito sandinista; i venditori ambulanti si aprivano passo, vendendo birra e caramelle. Davanti alla tribuna si sono fermati; io ero in seconda fila. Era in quella occasione che ho visto, per la prima volta, Daniel Ortega a quindici metri di distanza da me. Aveva ormai più di settant'anni ed era gravemente malato di lupus, che lo costringeva a essere ricoverato ogni due settimane. Eppure, parlava ancora con quella convinzione che convinceva, con una grande forza. Mi ha incantata; sono facile da incantare. Mi era naturale, quindi, illudermi che tutti gli altri sentivano lo stesso...
In Italia, i miei camerati mi mostravano delle foto che datavano poco prima del crollo finale del fascismo. "Guarda quanta gente era in piazza per salutare a Mussolini" mi dicevano "È vero che gli antifa dicono che la gente era portata lì coi camion. Ma è logisticamente impossibile portare mezzo milione di persone in piazza coi camion!" Lo dicevano perché erano giovani e non avevano mai vissuto sotto un governo efficiente. Se no, avrebbero saputo che per un governo efficiente tutto, o quasi tutto, è logisticamente possibile.
Una volta, un'ora prima della marcia, ho deciso di fare un salto all'asl per farmi una vaccinazione. Ho visto, pero, che stavano chiudendo. Il personale medico stava in un pullman parcheggiato, uno dei pullman che normalmente assicuravano il trasporto pubblico. Vestivano i colori rossi-neri; ho capito che andavano alla marcia. Mi ero unita a loro, già che ci volevo andare in ogni caso. La prima scossa l"ho avuta quando ho visto le tre liste: da firmare quando cominciava la marcia, da firmare quando terminava, e la terza, probabilmente, da firmare da chi era rimasto ad ascoltare davanti alla tribuna. Appena il pullman era partito, è cominciata una pioggia tropicale, una di queste piogge che in Nicaragua possono durare per due settimane. La strada era diventata un fiume. Allora i dottori e gli infermieri hanno cominciato un chiasso: non potevano marciare in queste condizioni; insistevano di essere portati direttamente alla tribuna. Solo una persona era disposta a scendere dal pullman sotto l'acqua, e, alla fine, l'autista ha dovuto acconsentire agli altri...
Marciavano per non perdere il loro lavoro.
Io, invece, marciavo perché appoggiavo sinceramente il governo. Ma non stavo, in quel momento, appoggiando una privazione di libertà che la mia coscienza mi gridava fosse ingiustificabile?
In Italia, credevo fermamente che la dittatura fosse la miglior forma del governo. I governi cosiddetti democratici passano il loro tempo in chiacchiere, mente le loro nazioni vanno a pezzi: lo dicevamo tutti, e io lo credo ancora. Eppure, se voglio scrivere un libro onesto, devo ammettere che è fin troppo facile appoggiare una dittatura quando si vive sotto una democrazia, ingiusta che fosse. Devo ammettere che c'era della confusione e dell'ipocrisia nelle idee dei miei amici italiani. Ci indignavamo, ad esempio, perché il sindaco di Roma ha fatto rimuovere un cartello contro l'aborto, perché giudicato offensivo dalle femministe. Gli vorrei chiedere ai miei amici di allora, ai miei amici tradizionalisti: ma si uno di noi fosse sindaco di Roma, avrebbe permesso ai nostri avversari di fare una pubblicità pro aborto sul muro di un palazzo? Certamente no. Allora perché ci lamentavamo che i nostri avversari ci negavano la libertà di parola, se noi la avremmo negato a loro, se noi dichiaravamo, in aggiunta, che è totalmente legittimo negare la libertà di parola? Professavamo la fede nella dittatura, ma poi recriminavamo il governo delle repressioni subite, rivendicando dei diritti umani che sotto una dittatura avrebbero luogo ancora meno che sotto la finta democrazia italiana... A volte mi viene da pensare che dopo settant'anni di repressioni, settant'anni nella posizione di vittima, molti dei ragazzi italiani che si professano di destra non avrebbero potuto vivere sotto un governo forte che tanto sognano. Forse neanche il fascismo lo avrebbero sopportato. Hanno dietro le spalle troppi anni di essere all'opposizione, troppa ribellione, troppo gusto per la libertà. Coniugano, troppo spesso, l'ammirazione delle virtù militari con l'incapacità di mantenere pulita la sede del partito. Avrebbero fatto buoni squadristi. Ma sotto uno Stato che esige l'obbedienza totale, forse gli sarebbe mancata l'aria, come è mancata a me...
Di più, forse anche i miei amici nicaraguensi a volte sentivano lo stesso. Una volta il marito di Karen è stato chiesto, davanti a me, se lui, nel parlamento, poteva dire ciò che voleva. Alla fine ha risposto che no, con una voce piena di imbarazzo. Un'altra volta mi mostrava le foto delle camminate sandiniste: guarda, mi diceva, quanta gente cammina per la pace. Allora gli ho chiesto, frontalmente, delle liste da firmare. Ha detto: "guarda, tutta questa gente si inscrive a un partito, e dopo non vuole partecipare alle iniziative del partito..." Nella sua voce, lo stesso imbarazzo di prima. Credeva fermamente nella sua causa; eppure chissà quali domande si faceva quando rimaneva da solo. Era un bravo ragazzo, malato ai reni perché, nel periodo più difficile, ha dovuto lavorare praticamente senza riposo, e solo i drink energizzanti lo tenevano in piedi. Questo, in Italia, io non lo sapevo: quando c'è una guerra, si lavora molto, si lavora per tutti gli imboscati. Nel carcere, ogni tanto una guardia era portata al posto medico piegata in due dal dolore ai reni: anche loro sostituivano il sonno con la caffeina...
Quando ero venuta in Nicaragua, la guerra era ormai mezzo fredda. Pochi morti. Si poteva fare una passeggiata...
Eppure c'era qualcosa di tetro in queste passeggiate. Una volta ho fatto una passeggiata nel parco con il marito di Karen e un altro amico mio, del ministero della cultura. Stiamo andati nel parco Luis Alfonso, il più grande parco della capitale, impeccabilmente pulito, pieno di giochi per bambini e campi sportivi. Sotto gli alberi l'aria era fresca, facendo dimenticare il calore incandescente che, dopo una camminata sulle strade soleggiate, mi portava sul punto di perdere i sensi. Abbiamo comprato delle patatine che si chiamavano Alboroto, "casino", e abbiamo riso: sempre lo stesso casino! Ci sentivamo allegri, eppure, qualcosa non andava. Eravamo soli. Noi, qualche venditore di gelato, e tantissime guardie di sicurezza stazionate sul ogni angolo di strada, per prevenire eventuali disturbi. Dove erano i bambini, gli innamorati, i vecchi? Dove era la gente? A casa, forse, aspettando che vengano gli americani per appenderci sui lampioni?
Un'altra volta, camminando da sola, ho sentito una commerciante sussurrare: "paramilitare". Non sono mai stata paramilitare, ma avevo l'impressione che se le cose tornassero ad andare male per il governo, mi avrebbero ammazzato lo stesso.
Eppure, anziché spaventarmi, l'idea del pericolo mi entusiasmava. Al cimitero, sulle tombe dei giovani sandinisti, ho visto il libro e il moschetto che mi hanno fatto sognare. Ricordavo il Cimitero Monumentale di Torino con i suoi bandierine sui loculi. "Patria o morte", "che si arrenda tua madre": tutte queste parole d'ordine spavalde mi elettrizzavano. Era la Repubblica Sociale Italiana che volevo veder risorta, e a forza del desiderio, mi convincevo di essere esaudita. Certamente il sandinismo, nato negli anni venti con la guerriglia di Sandino contro l'esercito degli Stati Uniti, era molto diverso dal fascismo. E mentre è vero che molti degli intellettuali che lo hanno appoggiato negli anni venti e trenta si facevano chiamare "camice azzurre" ed erano di diretta ispirazione fascista, a partire degli anni cinquanta il sandinismo aveva assunto molti elementi marxisti e non poteva certamente essere chiamato "di destra", anche se non era neppure "di sinistra" nel senso in cui lo intendiamo in Europa. Era un movimento autoctono nicaraguense, basato sulla sovranità e sulla giustizia sociale, che somigliava piuttosto al peronismo, e non rientrava affatto nelle nostre definizioni europei. Eppure, si poteva essere detto di me ciò che ho letto in una prefazione di un libro di Berto Ricci: "nel ventunesimo secolo, non potendo deporre le armi, sarebbe stato costretto a combattere le guerre degli altri". Io avevo abbracciato interamente la causa sandinista; ma il mio entusiasmo aveva le sue radici in Italia...
Non sono mai stata "neofascista": era al movimento originario di Mussolini che avrei voluto appartenere. Tra fascismo e neofascismo c'è una differenza grande. In Italia, ho sentito parlare del corporativismo, dell'autarchia, di terza posizione equidistante dal comunismo e dal capitalismo... Il fascismo italiano era tutto questo, ma era, primordialmente, "tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato". Questa affermazione, tra i miei camerati italiani, era piuttosto in disuso. Non potevano conoscere cosa significa lo Stato, perché erano nati in una nazione allo sfacelo. Quando parlavano del Duce, era come se un orfano parlasse di cosa significa avere un padre. In Nicaragua l'ho visto, l'ho sperimentato, e mi è andato subito alla testa. Credo che questo non mi si può riproverare... La destra italiana ama a Putin, "l'uomo forte", l'unico politico odierno che considerano essere alla statura di Mussolini; lo amano assai di più della destra russa, che lo detesta per una serie di ragioni, inclusa la sua politica migratoria. Ma, aldilà delle opinioni, Putin è un politico per chi si vota, per chi anch'io avrei votato. Daniel Ortega, invece, è un politico per chi si muore...
Mentre ero in Italia, volevo scrivere un libro, "Il fascismo è cattolico, il cattolicesimo è fascista", parlando, ovviamente, non del cattolicesimo post-conciliare di Bergoglio e compagnia, ma del cattolicesimo di crociate e cattedrali, quello di sempre. Mi ero sbagliata. Di fatto, non c'è nessuna contraddizione dottrinale tra cattolicesimo e fascismo. La contraddizione non è sul terreno della fede, è sul terreno dell'amore. Il cattolicesimo ci ordina di amare Dio al di sopra di tutte le creature. Il fascismo invece, porta ad amare il Duce al di sopra di tutto. I fascisti morivano gridando "Viva Mussolini!", non già "Viva Cristo!". È la morte che ci rivela sempre ciò che si ama. Quando ho sentito dire, una volta, nella sala di attesa di una clinica, "Anche il Comandante può morire", il mio cuore è saltato istantaneamente nel petto. La morte di un essere a noi caro ci sorprende sempre: ed è nel momento che ne veniamo a conoscenza che possiamo misurare quanto, veramente, lo abbiamo amato. Ma è quando stiamo disposti a dare la vita per qualcuno che sappiamo, senz'ombra di dubbio, che lo amiamo "al di sopra di tutte le creature". I fascisti morivano per il Duce. I sandinisti morivano per il Comandante. In questa devozione senza misura c'è già, forse, il germine del peccato? Nel carcere, rileggendo la Bibbia, ho fatto una riflessione che la storia di Mosé tradito dal popolo che lui aveva riscattato, la storia di Davide tradito dal suo figlio amato Absalom, e perché no, la storia di Gesù tradito e abbandonato, erano ottime metafore del tradimento che ha subito il governo di Nicaragua. Se avesse considerato il Comandante come una metafora di Gesù, ancora poteva passare... Ma Gesù metafora del Comandante!!! È allora che, cogliendo questo pensiero al volo, ho saputo che il mio peccato aveva un nome: si chiamava idolatria.
Quando amiamo qualcuno, chiunque sia, più di Dio, e lo mettiamo al posto di Dio, è naturale che ci viene meno anche l'amore al prossimo. Solo gli interessi di Dio non sono mai in contrasto con gli interessi del prossimo; ogni altro oggetto di amore può portarci ad andare, nel suo nome, contra la carità. Ne ho avuto un presentimento il giorno che ho deciso di colorare i miei capelli con i colori rossi-neri del partito sandinista. I miei capelli erano già neri; era sufficiente colorare un ciuffo in rosso. L'ho fatto a casa mia; poi, guardando le mie mani, ho visto che erano color rosso scarlatto... Poteva essere vero che avevo sangue sulle mani? Era vero che essere pronti a morire per una causa significava sempre, in pratica, essere pronti a uccidere per essa? Uccidere, per la maggioranza di noi, è molto più facile che morire...
Un giorno, ero in una ristorante parlando di una marcia pro vita a cui avevo partecipato con Forza Nuova a Milano. Il proprietario, che stava in disparte, non aveva capito bene; forse ha sentito le parole "marcia", "polizia", e ha pensato che io parlasse di una delle marce contro il governo nicaraguense. Mi chiamò nella retrobottega e mi contò che, nei mesi di guerra, nascondeva alcuni oppositori del governo in una soffitta secreta sopra i bagni. Ha detto che ha mandato la sua moglie negli Stati Uniti per sicurezza: "nessun problema con il visto, ti assicuro". Voleva fare amicizia con me, mi prometteva di raccontare di più se io tornassi. L'ho salutato rapidamente e me ne sono andata... Il caso mi sembrava strano. Chi può essere così stupido da raccontare una cosa del genere a una sconosciuta? Poteva essere un agente della polizia provandomi. Ho potuto, poi, constatare che la polizia nicaraguense agiva, principalmente, per mezzo di infiltrati. Ma se fosse vero, se veramente avesse nascosto dei latitanti in soffitta? Secondo la mia maniera di vedere le cose, non dirlo alla polizia sarebbe stato tradimento. Significava tradire il mio ideale, tradire il Comandante. Ma denunciare quel uomo, egualmente, sarebbe stato tradimento. Sarebbe stato tradire la sua confidenza, e la confidenza per me era sacra, anche se si trattava di un nemico. Io non potevo sapere cosa gli poteva succedere in seguito alla mia denuncia... Dovevo, quindi, scegliere tra due tradimenti. Ci ho pensato per due giorni, poi l'ho denunciato. E alla fine non importa che la polizia non si era interessata molto, non importa se si trattasse veramente di un golpista, o di un infiltrato della polizia. La mia scelta non perdeva niente della sua tragicità, perché io, appunto, non sapevo quali sarebbero le conseguenze della mia azione, e l'avrebbe fatto quali che fossero. Mi ricorda il caso di mia nonna: lei ha abortito il suo secondo figlio, perché il dottore le ha detto che il bambino sarebbe nato disabile. Una volta fatta l'operazione, si è potuto constatare che la malformazione del bambino non era in ogni caso compatibile con la vita. Sarebbe morto alla nascita. Mia nonna, lacerata da decenni di rimorso, si diceva, in un vano tentativo di giustificarsi: "non l'ho ucciso; sarebbe morto comunque". Ma lei sapeva, al fondo del cuore, che non cambiava niente. Al momento del decidersi per il aborto, lei non era a conoscenza che il bambino non era atto alla vita. L'avrebbe abortito comunque. La gravità delle nostre azioni non dipende dalle loro conseguenze, ma dalla nostra intenzione. È per questo che Gesù diceva: chi odia il suo fratello, è già assassino...
La mia denuncia metteva a nudo un fatto fondamentale: io avrei preferito, comunque, il mio ideale alla mia coscienza.
Si era un peccato, io l'ho pagato caro. Si dice che tutte le rivoluzioni divorano la loro prole....
Prima ho dovuto andare via dalla casa che affittavo. Il proprietario, rabbioso, continuava a parlare di una bandiera; lui aveva versato sangue per quella bandiera... Ci ho messo tempo per capire: lui mi accusava di rubare la bandiera sandinista sopra la mia casa. Solo che io non l'avevo fatto. In Nicaragua, la pioggia pare diluvio vecchiotestamentale. Era giustamente la stagione della pioggia, che aveva fatto la bandiera cadere dal tetto. Io non poteva vederla nel lodo; l'ho raccolta e l'ho messa a seccare sul portone interno della casa, già che non aveva una scala per rimetterla sul tetto. Qualcuno degli altri inquilini della casa deve averla rubata. Ma non c'era modo di spiegarlo al proprietario: mi è stato detto di lasciare la casa entro due giorni.
Poi ho perso il lavoro. Avevo partecipato al concorso per insegnare inglese a scuola; un concorso piuttosto facile. Il delegato del Ministero dell'Educazione mi ha detto in privato, quando l'ho incontrato durante una marcia sandinista, che la mia candidatura era stata approvata, e che doveva cominciare a lavorare tra due mesi. Lo stesso mi aveva detto, telefonicamente, una dei professori che gestiva il concorso: "non dire a nessuno che te l'ho detto prima che fossero pubblicati i risultati, ma hai ottenuto una nota eccellente". Ho cominciato ad avere dei brutti presentimenti quando ho chiesto al delegato di darmi un contratto preliminare, di cui avevo bisogno per fare il permesso di soggiorno, e lui si era limitato a scrivermi una carta dal testo ambiguo. Il giorno che i risultati sono stati pubblicati, ho cominciato a piangere prima ancora di leggerli. Ho pianto durante tutto il cammino fino alla scuola; avevo indovinato ciò che troverò. Infatti, il presentimento non mi ha ingannata: il mio nome non era nella lista. Per far capire il mio stato d'anima, devo spiegare che cosa significava per me questo lavoro. Con il mio inglese scorrevole di chi ha vissuto per quattro anni in Canada, avrei potuto lavorare in un call center guadagnando tre volte di più che in una scuola pubblica. Il lavoro nella scuola, tra l'altro, era difficile. Se fosse stata accettata, avrei avuto varie scuole - tre, quattro, o addirittura cinque - a mio carico. Se volevo lavorare in una scuola pubblica, era perché volevo servire la mia causa, volevo contribuire con la mia conoscenza allo sviluppo del paese che amavo. E adesso io non ero nella lista, ma c'erano quelli ragazzi che ho incontrato durante il concorso: quelli che erano lì solo per i soldi, quelli che parlavano inglese come un ragazzino delle elementari... Non è che è stata rifiutata la mia candidatura; sentivo che è stato rifiutato il mio amore.
Avevo ancora una speranza: un istituto pubblico che, anch'esso, mi aveva promesso lavoro. Offrivano corsi di inglese e cinese per gli adulti. Quando mi ero presentata per la prima volta, si erano molto interessati alla mia conoscenza di russo, francese e italiano, che gli avrebbe permesso di introdurre nuovi corsi nel programma. Adesso che la scuola non mi contrattava più, ho deciso di andare senz'altro nell'ufficio di quel istituto. Stavo giustamente passando per una piazza con il telefono in mano, quando quattro uomini vestiti di rosso e nero mi hanno cerchiata e mi hanno tolto il telefono prima che io mi accorgesse di ciò che stava succedendo. All'inizio ho pensato che erano dei ladri vestiti da sandinisti, e ho guardato verso il centro della piazza, dove c'era in corso una manifestazione sandinista, per chiedere aiuto. Poi ho capito che erano gli stessi, e ho cominciato a piangere... Erano dei poliziotti che volevano controllare il mio telefono per vedere se non li stessi fotografando. Da quando ero arrivata in Nicaragua, avevo fatto molte foto: tutto ciò che il governo ha fatto mi sembrava stupendo, e volevo condividere il mio entusiasmo con i miei amici. Avevo scattato, ad esempio, molte foto delle rampe e parcheggi per invalidi: mi riempiva di orgoglio che il regime che io idolatrava avesse costruito tutto questo in un paese "del Terzo Mondo". Ma non mi sarebbe mai venuto in mente di fotografare le manifestazioni sandiniste: significava mettere in pericolo queste persone, facendone un facile bersaglio dei golpisti. Quel giorno, infatti, non stavo prendendo foto di niente: stavo parlando sul Whatsapp con la proprietaria della mia casa. La polizia in borghese che mi aveva tolto il telefono aveva subito chiarito l'errore e mi ha restituito il telefono dopo cinque minuti. Ma io stavo, ormai, piangendo a fiotti. Non mi importava del telefono; era il fatto che quelli che io consideravo dei camerati mi avevano appena aggredito... Uno di loro ha cercato di consolarmi, toccandomi sul braccio, ma io ero ormai troppo scossa per reagire. Sono rimasta lì a piangere un largo rato; poi, ho continuato a camminare lentamente verso l'istituto, vacillando e cadendo come se fossi ubriaca. Nell'ufficio del istituto, mi aspettava un'accoglienza fredda: il "si" era diventato un "no" senza spiegazioni. Lì vicino era la biblioteca pubblica dove lavorava la mia amica russa. Sapevo che lei conosceva la moglie del Comandante; volevo chiedere il suo aiuto, ma una volta venuta a trovarla, non ho osato... Abbiamo, invece, parlato di politica e poesia, come altre volte. La mia amica conosceva centinaia di poesie a memoria; parlava recitando. Forse lei avrà avvertito ciò che passava per la mia mente, perché mi ha citato due poesie sul suicidio, sull'egoismo del suicidio. Aveva ragione, ero egoista: avevo, infatti, amato la mia idea più di mia figlia. Non ho ancora parlato della mia bambina, anche se in questa storia lei era, forse, più vittima di tutti. Ne prendevo cura, non lasciavo che le mancasse niente; eppure le mancava la cosa più importante, la cosa di cui ha diritto ogni piccolo uomo: l'amore senza limiti di una mamma. In tanti mi avevano detto che l'amore di mia figlia mi doveva bastare per essere felice; non mi bastava. Mi dicevano che doveva vivere per lei; io, invece, vivevo per il mio ideale, l'ideale che adesso mi sfuggiva dalle mani... Ero più papà che mamma. Il papà, infatti, è prima ingegnere, scrittore, militare, e solo in secondo luogo, papà. Ricordiamo i grandi uomini per la loro missione; ricordiamo le donne, invece, per i figli a cui loro hanno dato vita. Non ero femminista; eppure, non arrivavo a fare della mia maternità il mio ragion d'essere. La mia passione per la politica aveva usurpato troppo spazio... Mi giustificavo ricordando le ausiliarie incinte sepolte sul campo X, ricordando Niccolò Gianni che, come tanti altri, era partito al fronte, lasciando la moglie incinta, per non tornare più; aveva scritto al figlio, "se non ti conoscerò mai, sarà perché ho amato l'Italia, e ti chiedo una sola cosa: amarla come io l'ho amata". Eppure il mio istinto mi diceva che era sbagliato: sbagliato amare un'idea, un paese, qualsiasi cosa, più di un bambino...
Nel frattempo, era venuto l'anniversario della morte di Carlos Fonseca, uno dei Comandanti sandinisti. Tutti i militanti del partito venivano sulla piazza principale per gettare, al grido del "Presente!", i fiori sulla tomba. Ero venuta anch'io, ma vicino alla tomba, la polizia mi ha fermata. Mi hanno controllato la borsa e il passaporto, mi hanno fatto decine di domande: Che stavo facendo in Nicaragua? Che ero venuta a fare lì? Solo l'intervento dei miei amici ha fatto sì che mi hanno lasciato passare. Ho gettato un mazzo di fiori sulla tomba, trattenendo le lacrime; in quei giorni, piangevo in continuazione, come se, anche nel mio cuore, fosse arrivata la stagione della pioggia...
Poi anche i miei amici mi hanno tradita. Forse non dovrei usare una parola tanto severa: mi conoscevano da poco. E poi alla fine, hanno preferito il partito a me, esattamente come io avrei preferito il partito a loro. C'era della giustizia in tutto questo. Certamente gli è stato detto: fatela andare via da qui. Hanno cominciato a convincermi di andare in Costa Rica: solo per due ore, mi dicevano; dopo ritorni e ti rinnovi il visto sulla frontiera. Ma poi si contraddicevano loro stessi dicendo che avevano degli amici in Costa Rica che mi avrebbero aiutato a trovare una casa e un lavoro... Casa e lavoro in un paese dove, a detta di loro, non doveva restare per più di due ore! Sapevo che non era vero; sapevo che se attraversasse la frontiera, non mi avrebbero lasciato più entrare... Una agente di polizia che viveva vicino a casa mia e che diceva, anche lei, di volermi aiutare, mi seguiva a ogni passo: non mi voleva lasciare da sola neanche per andare dal parrucchiere. Mi tenevano sotto l'occhio; ma non ho mai saputo di che cosa, e da chi, ero ritenuta colpevole. Mi avranno preso per un'infiltrata? Piangevo ogni giorno; una volta, con i nervi già crollati, ho scritto un messaggio a Karen, chiedendole di venire a trovarmi. Mi ha risposto che era occupata con i suoi acchiappasogni. Ed era vero; il governo aveva cominciato ad organizzare festival dopo festival, facendo sì che Karen ha dovuto organizzare una mini fabbrica di acchiappasogni a casa, perché da sola non riusciva di farne a sufficienza. Eppure la sua assenza mi era particolarmente dolorosa. Quando era stata lei a chiamarmi, dicendo che aveva paura, io ero subito venuta, rischiando di essere sequestrata da quei bastardi; ma adesso che ero io a non farcela, lei non era venuta da me...
Ho, finalmente, scritto alle massime autorità. Ho pregato di essermi permesso di rimanere in Nicaragua; nel caso contrario, pregavo di uccidermi, così almeno ci sarei rimasta da morta. C'è una crudele ironia nel fatto che una ex forzanovista voleva farsi ammazzare, perché la volevano deportare da un paese del Terzo Mondo. Non potevo evitare il pensiero che forse la mia militanza contro gli sbarchi era, anch'essa, un peccato da pagare... Non sono mai stata razzista; se in Italia denunciavo il business "dell'accoglienza", era perché lo conoscevo da dentro, e sapevo fin troppo bene che si trattava di sfruttamento mascherato con carità. Ma quando ciò che io ho imparato a chiamare "destino" ti colpisce, è facile dubitare anche delle tue convinzioni più forti...
La mia lettera non ha avuto risposta.
Poi è venuto quel 5 dicembre, pochi giorni prima della festa dell'Immacolata Concezione, "la Purissima". Le avevo chiesto un miracolo alla Vergine, ma non le ho dato il tempo di esaudirmi... La notte di quel giorno non ho dormito; la mattina ho chiamato Davide, un ragazzo che mi corteggiava. Lui era la mia ultima speranza; ma mi ero ormai accorta che neanche lui mi voleva aiutare. Quando l'ho chiamato, mi ha detto di calmarmi, di chiamarlo quando ero più calma. Mi ha riproposto di accompagnarmi alla frontiera con Costa Rica. "Costa Rica è un paese come un altro", ha detto con noncuranza. Come poteva lui, un militante sandinista, non capire che mi era insopportabile prendere quel pullman per Costa Rica, giustamente quel pullman che prendevano tutti i golpisti che lasciavano il paese? Ho gridato, mi ricordo, "Costa Rica merda!" e ho riattaccato. Ormai non avevo più speranze; l'unica cosa che volevo ancora dalla vita era morire in piedi. Suicidarmi sarebbe stato accettare la sconfitta. Non potevo andarmene in silenzio; volevo che quelli che mi uccidevano sapessero di avermi ucciso. Volevo costringerli a uccidermi con la loro mano. Ed è per questo che ho detto a varie persone di volermi suicidare: volevo farlo più facile alla polizia far passare la mia morte come un suicidio...
Ormai stavo delirando. Eppure, quei brandelli di pensieri che si susseguivano senz'ordine nella mia testa, guardavano ancora tracce di lucidità. Nel mio subconscio, deve essere sorto il caso Matteotti. Volevo vendicarmi prima di morire, eppure non potevo colpire direttamente quelli che ho tanto amato e che amavo ancora. Ero come un uomo che, tradito dalla sua compagna incinta, non può colpirla con la sua mano... Per me, chiunque portasse l'uniforme del governo era sacro; non gli avrei mai potuto far del male. Eppure la rabbia mi bruciava dentro; mi sentivo tradita da quel regime per cui io così allegramente avrei dato la vita, per cui avevo già dato, forse, molto di più: la pace della mia coscienza... È allora che ho deciso a uccidere Matteotti. Un attentato contro un membro pacifico dell'opposizione: tutti avrebbero detto che è stato il Comandante a mandarmi. Avevo intuito che non potevo vendicarmi di maniera più atroce: la reputazione del governo sarebbe macchiata per sempre. Di più: l'equivoco sarebbe chiarito. Se fosse vero che mi avevano sospettato di aver qualche tratto con i golpisti, dopo un attentato contro l'opposizione, nessuno lo avrebbe detto mai più. I sandinisti mi avevano disconosciuta, tanto peggio; adesso tutti i golpisti del paese diranno che ero sandinista...
Mi restava solo scegliere la vittima. Come avevo menzionato, spesso i sacerdoti facevano diventare le chiese depositi di munizioni e rifugi per i latitanti. Il vescovo di Managua ha avuto la faccia tosta di ordinare il Presidente a rinunciare al suo incarico... L'ironia suprema era che il governo sandinista non era affatto anticlericale; al contrario, era dichiaratamente "cristiano, socialista e solidario". Ha passato dei leggi cristianissime, come la proibizione totale del aborto, ha sempre dato soldi generosamente alle iniziative caritatevoli della chiesa, ha incoraggiato tradizioni popolari cattoliche. I miei amici mi hanno raccontato che, prima del mancato colpo di stato, durante i riunioni del partito, si leggevano i messaggi di Papa Francesco. Eppure, con la venuta della guerra, è diventato chiaro: la chiesa ha tradito, la chiesa stava dall'altra parte... Sembrava che i preti abbiano dimenticato del tutto che ci fossero dei sandinisti credenti; non hanno detto mai una parola in loro difesa. Sapevo di questa ostilità, sapevo della prontezza di questi ecclesiastici bugiardi di dichiararsi "martiri per la fede" mentre nessuno gli rimproverava di praticare la fede; piuttosto, gli si rimproverava di assecondare il terrorismo... Sapevo, o piuttosto intuivo, che se io gli avesse dato un "martire" vero, non avrebbero perduto l'occasione di accusare il Comandante, che solo pochi giorni prima gli ha denunciati per la loro complicità coi ribelli. Non ragionavo più in forma lineare; eppure, i miei ragionamenti avevano una chiarezza frenetica. In un negozio di prodotti domestici, ho comprato dell'acido solforico, dicendo che ne avevo bisogno per sbloccare il mio bagno. L'avrei gettato addosso al primo sacerdote che incontravo nella Cattedrale di Managua... Questo sì avrebbe fatto parlare i giornali. All'inizio ho pensato di compiere l'attacco durante la messa; poi ci ho rinunciato. Per quanto assurdo sembrasse uno scrupolo del genere, non potevo permettere che l'acido cadesse su un'Ostia consacrata... Poi, per compiere il delitto durante una confessione, avevo delle buoni ragioni: mi permetteva di spiegare alla vittima perché l'avesse fatto. La confessione non era un pretesto per l'attacco: il mio atto ERA una confessione. Volevo confessare il mio odio, che mi aveva corrosa come l'acido; volevo, sopratutto, confessare il mio amore sfregiato... Volevo confessarlo, sopratutto, alla polizia; ma anche il sacerdote aveva il diritto di saperlo, in qualche maniera. Tuttavia, non gli volevo dire la verità apertamente, perché temevo che rompesse il secreto della confessione, come lui l'ha effettivamente fatto dopo. Sotto giuramento, ha detto che queste cose gli fossero state dette a confessione finita; era menzogna... Me l'avevo immaginato; gli ho, quindi, raccontato una parabola. Ho detto che volevo suicidarmi perché amavo un ragazzo più della mia vita, ma il ragazzo mi aveva ingiustamente sospettata di tradimento, e mi ha lasciata... Il "ragazzo" era, ovviamente, una metafora per il governo sandinista. Volevo fargli capire: mi avete respinta, a me chi vi ero fedele, vi ero, davvero, fedele...
Febbrili, le ore prima dell'attacco. Mi ero tagliata i capelli: un gesto che mi ricordava i condannati a morte, con la loro nuca rasata, e le ausiliarie della RSI schernite dai partigiani. Guardandomi nello specchio dal parrucchiere, ho avuto paura della mia faccia pallida, con le guance scavate. Poi, una bambina in un bar, dove mi ero seduta in attesa delle confessioni, mi ha fatto pensare al inferno: gettava il suo dinosauro all'aria, ripetendo: "Dove vai? Vai giù!" Mi è passato per la mente che Dio me stesse dando un'ultima avvertenza; un'avvertenza che io non ero più in grado di ascoltare... Gli ho pregato: "Non posso più fermarmi. Ma non farmi morire prima di pentirmi..."
Eppure, ero calma, ero calma per la prima volta in due settimane. Dopo l'attacco, molte persone hanno fatto notare che io non mostrasse turbamento alcuno. Neanche l'acido solforico, che mi era caduto sul piede, sembrava causarmi dolore. Infatti, non lo sentivo affatto...
Il sacerdote non si era interessato particolarmente alla mia confessione. Ce ne sono tante, di ragazze lasciate dal fidanzato. Mi ha consigliato di trovare un altro, uno "che abbia un buon lavoro". Allora ho chiesto, "Padre, è peccato interessarsi alla politica?" Volevo essere sicura che lui fosse dalla parte dell'opposizione. Mi ha detto che non era peccato, ma che dovevo fare attenzione, perché mi potevano arrestare. Aveva presunto che "interessarsi alla politica" significava unirsi alle proteste. Ho chiesto, ancora: "Perché la chiesa aiuta gli azzurri e bianchi?" Così i golpisti si facevano chiamare. Il sacerdote ha risposto, cautamente, "Gli aiutiamo a non avere l'odio nel cuore". Era chiaro che, a differenza di tanti altri, non si trattava di un fanatico. Era un moderato; può darsi che era un buon prete. Ho avuto un attimo di dubbio, mentre lui mi dava l'assoluzione. Ma ero, ormai, troppo decisa a commettere il crimine. Gli avrei lanciato l'acido in faccia sulla panchina dove mi ero confessata, ma lui si era alzato troppo velocemente, e si stava allontanando per la corsia. Allora mi ero alzata anch'io e gli ho lanciato il liquido sulle spalle. Il sacerdote ha cominciato a gridare atrocemente. La gente intorno gridava e correva; qualcuno gli stava togliendo i vestiti da dosso. Io mi avevo tolto le scarpe imbevute dall'acido. Poi ho chiesto a varie persone di chiamare la polizia, ma nessuno mi prestava attenzione; allora, ho cominciato a correre. Volevo raggiungere la polizia che era stazionata fuori del portone della Cattedrale. Temevo, infatti, che la folla mi linciasse prima che io potessi dire alla polizia perché l'avevo fatto. Se non avesse avuto l'opportunità di spiegarlo, il mio gesto sarebbe stato inutile... Solo al vedermi correre la gente si è resa conto che sono stato io a compiere l'attacco, e varie persone mi hanno corso dietro. Un uomo robusto mi ha raggiunta nel cortile e mi ha immobilizzata. Ricondotta nel Cattedrale, continuavo a chiedere che chiamassero la polizia. Qualcuno mi ha interrotta, "la polizia qui non c'è, qui ci stiamo noi". Mi minacciavano di lanciarmi il resto dell'acido addosso se non gli dicevo chi mi aveva mandato. Io ripetevo la storia del fidanzato che mi aveva lasciata... Ho detto che volevo essere uccisa, ma non da loro: volevo che fosse la polizia a uccidermi. Qualcuno ha detto: "Se volevi che ti uccidesse la polizia, dovevi uccidere un poliziotto e no un padre". Finalmente, un altro sacerdote mi aveva salvata dalla folla, conducendomi in una stanzetta piccola. Lì, una suora mi ha medicato il piede. Ho pensato con sgomento che forse mi ero sbagliata, e gli ecclesiastici non erano così malvagi come me lo figuravo; forse, mi avevano mentito su di loro. Pensavo che la suora stesse praticando il precetto evangelico di aiutare il nemico... Quando ho rivisto questa buonanima in corte, ho capito che la sua intenzione è stata ben altra. Voleva, con la sua finta gentilezza, riuscire dove gli altri non hanno riuscito con le minacce: voleva, cioè, che io dicesse che il governo mi ha mandata. La verità non gli importava; per questa missionaria di Dio, il governo era colpevole a priori. Allora ha fatto ciò che neanch'io, con tutto il mio disprezzo per la chiesa modernista, mi aspettavo da un religioso. Ha mentito in corte dopo aver giurato solennemente sulla Patria di dire tutta la verità e nient'altro che la verità. Ha riportato che io, presumibilmente, le aveva detto che "se non bruciava il padre mi avrebbero ucciso", che io voleva essere portata in carcere perché "la polizia non mi avrebbe fatto niente". Quando l'ho sentita mentire così sfacciatamente, l'indignazione mi era montata in gola. Lei doveva avermi vista diventare rossa dalla rabbia, perché si è affrettata ad aggiungere: "Avevo registrato la conversazione sul mio telefono, ma non ho potuto portare con me la registrazione, perché il telefono si è bloccato"... Va da sé che questa registrazione non è mai esistita...
Il mio crimine era "riuscito" troppo bene. L'opposizione voleva, a tutti i costi, far credere che il governo mi ha pagata...
Ma io, ormai, avrei fatto tutto perché non fossero incriminati. Mi ero pentita immediatamente dopo aver compiuto l'attacco. Era come se tutta la mia rabbia contro i sandinisti fosse uscita fuori, ed è rimasto solo l'amore immenso che sentivo per loro. Quando la polizia era finalmente venuta per portarmi via dal Cattedrale, ripetevo una sola cosa: "Andate subito a prendere il mio telefono a casa mia. Affitto una stanza vicino all'agenzia funebre 'Monte dei Ulivi'..." Avevo paura che i giornalisti trovassero il mio telefono per primi, e pubblicassero che io frequentavo dei militanti sandinisti... Il pensiero che ho fatto del male a chi più amavo, mi era insopportabile. Ma è fin troppo vero che un amico sa ferire più profondamente di qualsiasi nemico...
Il danno era già fatto. I giornali dell'opposizione hanno parlato del mio crimine per mesi; tutti suggerivano che il governo ne fosse dietro. In quanto ai giornalisti delle media statali, volevano a ogni costo smentire l'accusa. Si sono arrampicati sugli specchi. Quando mi dirigevo alla Cattedrale, l'acido, che avevo chiuso male, mi era caduto sulla camicia, bruciandola. Ho quindi comprato in una "venta", piccolo negozio familiare, l'unica maglietta che avevano della mia taglia. Sulla maglietta era dipinta un'ecografia di un feto che faceva un gesto indecente con la manina. Non avevo, certamente, fatto attenzione a quell'immagine; avevo ben altro nella testa. Dopo il mio crimine, pero, i giornalisti statali si erano aggrappati a questa maglietta e ai miei capelli corti per dire che io ero una femminista che militava per il aborto. Questo mi ha occasionato un dolore immenso quando l'ho saputo. Potevo essere un'assassina, ma abortista non sono stata mai. Avevo, al contrario, sempre militato nei movimenti pro vita. Oltretutto, una abortista in Nicaragua non avrebbe avuto nessuna ragione per attaccare la Chiesa. L'aborto in Nicaragua è illegale in tutti i casi senza eccezione. Casomai sono alcuni ecclesiastici che militano per farlo legalizzare, perché a loro parere gli aborti illegali mettono in pericolo la vita delle donne...
Ciò che mi ha amareggiato ancora di più, è che alcuni giornalisti italiani del mio stesso ambiente hanno ripetuto questa storia senza verificarla. Significativo il fatto che io, che ho attentato contro la vita di una persona, ci tenevo tanto a ribadire di essere pro vita. Di me si può dire ciò che è stato detto di Farinacci: che lui rappresentava "il fascismo degli antifascisti", incarnando tutto ciò che del fascismo è odiato e che non ha mai, forse, fatto parte delle sue espressioni migliori...
Eppure adesso ci tengo a chiarire il mio nome almeno di questa accusa. A quell'epoca, invece, mi sentivo talmente colpevole nei confronti del governo nicaraguense, che avrei permesso ai giornalisti statali di dire qualsiasi bugia sul mio conto, se solo questo poteva contrastare l'accusa contro il Comandante, fatta dalle media golpiste... Sarei stata addirittura pronta a dire che il sacerdote mi ha stuprata, aggiungendo un oltraggio alle ferite che gli avevo già inflitto. Quando in carcere mi dicevano, "dicono che..." io chiedevo "su quale canale l'hanno detto?" e se era un canale del governo, dicevo che era vero...
Adesso sorge la domanda si non aveva alcuna pietà per la mia vittima. La risposta può apparire agghiacciante: a lui come persona umana capace di sentire dolore, non ci ho pensato affatto prima di aggredirlo, e molto poco, dopo. La prima cosa da dire è che la mia vendetta era contro il governo sandinista: nella mia mente, erano loro la vittima del mio atto. Erano loro la mia idea fissa: ero arrabbiata con loro perché li amavo troppo. Di odiarli, non sarei stata capace. Questo sentimento era, in quel momento, così forte da non lasciare spazio a nessun altro. Era a loro che volevo far del male; ed era di far del male a loro che mi ero pentita. Il sacerdote, invece? La spiegazione è semplice e brutale: io consideravo chiunque avesse appoggiato il colpo di Stato di aprile come un nemico. E un nemico non è un oggetto di compassione. Di più: non è neanche un oggetto di odio. Su un campo di battaglia, nessuno sente odio personale per il nemico che colpisce. Si odia la bandiera nemica; l'uomo di fronte a te non è più un uomo, ma un rappresentante di quella bandiera. Nicaragua era in guerra civile: questo vuol dire che tutto il paese era diventato un campo di battaglia...
Quando, in Russia, aiutavo i carcerati, mandandogli delle medicine, ho fatto amicizia con alcuni di loro. Uno aveva fatto la guerra in Chechenia. Tornato dalla guerra, non si è mai potuto riadattare alla vita normale; era stato condannato a vita per una serie di omicidi. Una volta gli ho chiesto: "Sei un uomo che si preoccupa sempre del benessere dei tuoi amici e della tua sorella. Mi sembri un uomo buono. È possibile che non hai provato compassione per la donna a chi hai sparato nella tempia?" Mi ha allora detto una cosa che mi ha gelata: "È ovvio che sono capace di compassione. Ma in una situazione di tipo militare, non ho scrupoli: penso solo a riuscire l'operazione..." "L'operazione" di cui si trattava era l'omicidio di una donna per rubarle dei soldi. Non ci vedevo nessuna "situazione di tipo militare"... Eppure adesso capisco meglio a quel uomo. Lui aveva vissuto la guerra; chissà quali atrocità ha visto e commesso. Per sparare agli uomini che non conosceva, ha dovuto prima imparare a disumanizzarli. Questa capacità lui l'ha portata con sé quando è tornato alla vita di pace. C'è chi idealizza la guerra; io sono stata una di queste persone. Eppure adesso devo ammettere: la guerra, qualsiasi guerra, fa di noi delle macchine per uccidere, ed è difficile tornare indietro. Io non ho partecipato alla guerra in Nicaragua, ma ne ho respirato l'aria, e ne sono stata, anch'io, avvelenata...
Avevo cominciato a respirare l'odio già in Italia. Mi ricordo una conversazione con i miei amici, cattolici tradizionalisti: stavamo discutendo se era meglio pregare per la conversione di Papa Francesco, o per la sua morte. Un sacerdote tradizionalista prossimo al nostro ambiente, che chiamava il suo rosario, scherzando, "la mitragliatrice a cinquanta colpi", ci diceva che i kamikaze giapponesi non erano suicidi ma martiri che andavano direttamente al cielo. Ci diceva che uccidere un nemico della Patria, anche se fosse in tempo di pace, non era peccato. No, non era un terrorista islamico a dirci questo; era un sacerdote... Così, pensando di seguire un ideale, sognando una primavera di bellezza, sono stata indottrinata al estremismo senza accorgermene. L'estremismo esiste nell'Islam e nel cristianesimo, negli ambienti di destra e della sinistra. Parole, quest'ultime, senza significato, perché possono significare cose esattamente opposte dipende da dove ti trovi. L'estremismo, invece, è lo stesso dovunque: è la legittimazione della violenza. È quando qualcuno dice, ad esempio, "uccidere un fascista non è peccato". Ci ho pensato, a Sergio Ramelli, quando ho saputo che il sacerdote che ho aggredito era diabetico, ed era stato sedato per causa del dolore. Forse era l'unica volta quando ho sentito compassione per lui... Mi ho chiesto, allora, in che sono meglio delle Brigate Rosse e i loro simili? Che differenza fa quali idee professiamo, se il risultato è lo stesso: la morte?
Forse la versione più vera che hanno scritto sul mio delitto era che io fosse posseduta da un demonio. In questo caso, era il demonio della politica: lo stesso che possedeva l'intero paese.
Quando si parla di una guerra civile, bisogna innanzitutto capire che la rabbia è al massimo livello da entrambi le parti. Anche in tempo di pace, come in Italia oggigiorno, la politica può generare tanto odio da rende impossibile qualsiasi comunicazione. Provate a spiegare a un ragazzo dei centri sociali che un fascista è un essere umano, o vice versa... Ma sono i morti che fanno un conflitto irreconciliabile. In Italia, oggigiorno, non ci sono più omicidi politici. L'aria, ancora, si respira... Ho conosciuto un ragazzo che si è scontrato in piazza con una ragazza; lei gli ha detto: "fascista di merda", e lui a lei, "zecca di merda". Poi si sono sposati e hanno avuto un figlio. In Nicaragua, qualcosa del genere non è più possibile tra "rossi e neri" e "azzurri e bianchi". Come si può giocare a calcio, prendere un caffè, o parlare di scuola - qualsiasi delle cose normali che fanno di noi una comunità - con quelli che hanno sparato a un amico tuo? Il motto "Dio, Famiglia, Comunità" era scritto inutilmente sulle pareti degli edifici pubblici nicaraguensi: la comunità non c'era più, e non ci sarebbe stata per chissà quanto tempo, così come in Italia non poteva esserci comunità nel 1945.
Gli "azzurri e bianchi" non chiedevano al governo nicaraguense nessuna riforma, nessun cambiamento. Il governo aveva già, nei primi giorni del conflitto, soddisfatto tutte le loro rivendicazioni: la riforma delle pensioni, che era stata il pretesto per le prime proteste, è stata immediatamente revocata. Se gli fosse stato chiesto ai golpisti come governerebbe un presidente ideale, e se il governo sandinista seguisse in tutto il programma da loro proposto, anche allora i golpisti avrebbero voluto farlo fuori. Non si sarebbero accontentati di nient'altro che la resa incondizionata del governo. E i sandinisti, dalla loro parte, volevano la resa incondizionata dei golpisti, sebbene lo chiamassero "riconciliazione". Quale riconciliazione è possibile dopo un tradimento? E i sandinisti si sentivano, innanzitutto, traditi. Hanno combattuto, perso, vinto, diverse guerre nel passato. Ma questa guerra era la più dolorosa di tutte. Il 19 aprile era diventato per loro, come l'8 settembre per i miei camerati italiani, un giorno da cancellare dal calendario.
Una mia amica nicaraguense mi ha detto: "Ho lavorato per 40 anni cercando di costruire questo paese... adesso che mi hanno ripagata di questa maniera, per poco lo odio, per poco vorrei andarmene". Era una persona amabilissima, con la casa piena di cani, gatti e nipoti. Una persona che ha personalmente curato tanti progetti di giustizia sociale, che ha insegnato ai ragazzini delinquenti dei quartieri poveri a leggere, per rimetterli sulla giusta strada. Quando parlava dei golpisti, pero, la sua voce diventava metallica. Una volta le ho chiesto se non aveva compassione per quei ragazzi a chi la polizia ha sparato. Alla fine, ho detto io, erano dei disgraziati che avevano bevuto la propaganda servita dagli Stati Uniti. Non avevano il cervello per capire ciò che hanno fatto... La mia amica mi ha risposto freddamente: "ogni persona che non è oligofrenica è responsabile di ciò che fa e ne deve pagare il prezzo". In quanto a Karen, anche lei era una ragazza dolcissima. Prima della guerra, con una amica sua, vaccinava i cani randaggi. Questa amicizia si era spezzata come tante altre: le due amiche si sono ritrovate ai lati opposti delle barricate. Anche Karen diceva, di un golpista di quelli che l'hanno sequestrata, un ragazzo che era stato vicino suo: "se lo incontro, lo ammazzo". Io le dicevo che non conviene, adesso che si stava costruendo la pace. "Non importa, lo ammazzo" diceva Karen...
Ero arrabbiata con i sandinisti, sì; volevo vendicarmi con loro; eppure, non smettevo di essere sandinista. Forse ciò che mi aveva perduta era la compassione. La compassione ci fa sentire il dolore dell'altro, ma anche il suo odio, sopratutto se proviamo amore per questa persona. Facciamo dei suoi nemici, i nostri e dei suoi sentimenti, i propri... I golpisti hanno bruciato, distrutto e saccheggiato il proprio paese. Hanno colpito i sandinisti lì dove faceva più male: nelle loro opere d'amore. I sandinisti avevano fatto di Nicaragua il miglior paese della regione, sicuro e prospero. I golpisti ne hanno fatto il più povero. Come vi sentireste voi quando vedete, in pochi mesi, il frutto di un lavoro di dieci anni distrutto per mano criminale? Io penso, anzi, sono convinta, che la severità della repressione contro i golpisti è dovuta esclusivamente alla profondità di questo dolore diventato rabbia. Anche lo stesso Comandante non riusciva più a reggerlo. Nel messaggio dell'anno nuovo, quando doveva congedarsi del primo anno della guerra, la sua voce tremava. La sua moglie, Rosario, non ha potuto trattenere le lacrime, dopo aver salutato con una mano che appena le obbediva. Poi tutti i presenti si hanno preso per mano, come se si trattasse di un saluto della pace, e hanno cantato: "Continua a sognare, continua a lottare... Un giorno, gli uomini torneranno a essere fratelli"...
I sandinisti non erano politici di carriera: erano poeti, sognatori, rivoluzionari. Hanno amato il loro popolo, hanno amato anche i golpisti. L'intensità della loro rabbia lasciava vedere un amore tradito. In carcere, i poliziotti chiedevano ai prigionieri: non avete pietà per questo ragazzino che non sa ancora dov'è il suo nonno sequestrato da voi? Avevo l'impressione che li avrebbero perdonato tutto se questi avessero dimostrato un minimo di pentimento. Ma in politica, il pentimento non esiste. Anche i golpisti credevano di lottare per un ideale che giustificava tutto... Allora i sandinisti odiavano. E io che li amavo, odiavo con loro.
A volte mi viene da pensare che l'odio è nient'altro che il negativo fotografico dell'amore. Anche l'amore più innocente, la tenerezza di una ragazzina per il suo cucciolo, può trasformarsi in odio viscerale. Immaginate che un ubriaco brucia quel cucciolo vivo sotto gli occhi della ragazzina. Non vorrà lei, in quel momento, vederlo morire nella stessa maniera? Spesso, pero, l'odio si nutre della menzogna, della propaganda, del sentito dire. Cosi una ragazzina dolce vorrà vedere morto a un uomo perché gli è stato detto che lui ha ucciso il suo cane, o perché somiglia a un altro uomo che lo ha ucciso... e magari si tratta di un innocente. Spesso, si tratta di un innocente.
Dobbiamo rinunciare ad amare, solo perché l'amore ha un negativo fotografico? Dobbiamo rinunciare a cercare la verità e amarla una volta pensiamo di averla trovata? Oppure possiamo imparare ad amare la verità senza odiare chi, secondo noi, ha torto?
Il Chipote, quel carcere politico dove mi avevano portata, non era certamente un luogo di vacanza. Il suo aspetto più sinistro era l'incredibile sporcizia dei corridoi bui. Sulle sbarre al di sopra di noi camminavano i gatti. Io amo i gatti, ma i nicaraguensi dicano che ti rubano l"anima quando dormi... Eravamo otto in una cella per quattro: quattro di noi dovevano dormire sul pavimento. Non avevamo lenzuola. Eppure, non provavo nessun disagio. Ero in uno stato d'animo strano: non mi importava affatto del mio presente e del mio futuro. Ero disposta a accettare qualsiasi sentenza: quando, per spaventarmi, mi hanno minacciata di condannarmi a trenta anni di prigione, ho detto solo: "se questo aiuterà a ammorbidire lo scandalo provocato della mia azione, sarò d'accordo". Non avevo nessuna intenzione di difendermi. Perfino in quel carcere malfamato, riuscivo a vedere della bellezza; un raggio di luce al tramonto mi incantava... Mi immaginavo, a volte, non già una prigioniera, ma una religiosa in un convento. Per me era, innanzitutto, "una istituzione del mio governo". L'amore che sentivo per il governo aveva raggiunto il massimo della follia. Amavo la polizia. Amavo le uniformi che portavano. Il mio piede, dove era caduto l'acido, si era infettato, e mi faceva male stare in piedi. Ma quando la polizia veniva a interrogarmi, non sentivo più nessun dolore, così che dimenticavo di dirgli di necessitare un medico. Una volta quando, già nel carcere comune dove mi avevano trasferita, ho sentito la voce del Comandante, sono partita di corsa verso il televisore all'altro lato della baracca: io che non potevo nemmeno camminare!
Nel Chipote, tutte le altre ragazze erano delle golpiste, "tranquere": quelle che, con i loro compagni, qualche mese prima hanno bloccato la città con le "barricate della morte". La prima notte, ho avuto paura di entrare nella cella, ma la polizia mi ha detto: "non ti preoccupi, non ti faranno nulla". Questa battuta ha avuto una spiegazione dopo, quando abbiamo avuto una discussione forte con le ragazze; la polizia le ha detto in quella occasione, "non litigate, se no vi mettiamo una per una nelle celle degli uomini." Queste guerriere si sono mostrate, poi, comicamente servili con me: quando si apriva la porta e entrava la polizia, per poco mi baciavano. Sentivo ripugnanza per la loro vigliaccheria. Eppure, un senso di colpa cominciava a molestarmi. Nel Chipote, ho potuto costatare che 90% delle storie che i giornalisti contavano su quel carcere erano false. Nessuno picchiava i prigionieri; nessuno li torturava o gli faceva mangiare vetro macinato. Ma erano isolati. Erano interrogati alle tre di notte. Ho visto una ragazza cadere in ginocchio e piangere quando le hanno passato un pranzo portato dalla sua famiglia. Non era che avesse fame. Piangeva perché era in quel momento, dopo un mese in carcere senza notizie da fuori, che lei ha saputo che i suoi sapevano dove lei si trovava. Ricordo le loro facce sempre più pallide per non vedere il sole... Non potevo non accorgermi che la polizia faceva una differenza tra me e loro. Generalmente vediamo la ingiustizia solo quando la subiamo. Sono sempre stata sincera con me stessa; non potevo non riconoscere l'ingiustizia anche quando ne ero favoreggiata...
Innocenti, non erano. Non potevano parlare senza mentire. Una diceva di essere malata di cancro, ma quando la polizia ha proposto di portarla in ospedale per fare i controlli, quella ha rifiutato dicendo che in ospedale "la farebbero ammazzare". Diceva di essere troppo debole per aprire il tappo di una bottiglia... Poi, svegliandomi a mezzanotte, l'ho vista esercitare le sue braccia con due bottiglie di tre litri pieni di acqua. Quando le ho chiesto perché lo faceva, ha risposto che "bisognava tenersi in forma per il giorno quando vincono gli azzurri e bianchi". Quella "ammalata" era accusata di tortura...
Un'altra ragazza aveva detto alla polizia di essere incinta. L'aveva sentito il suo fidanzato nella cella vicina e ha lanciato delle grida di giubilo. Le ho chiesto che cosa dirà al fidanzato quando lui scopre la verità. "Dirò che il dottore me l'aveva detto" ha ribattuto lei. Era una diciottenne tossicodipendente, magra come un bastone. Quando era arrivata nella nostra cella, le altre "tranquere" hanno cominciato, come al solito, di consigliarle cosa dire alla polizia. Le dicevano di negare tutto. "Ma loro hanno le prove, hanno le foto, la gente mi ha vista..." diceva la ragazza. "Testimoni falsi, ricordati, testimoni falsi" diceva "l'ammalata". Una notte ha detto alla polizia che io ho voluto strangolarla. Nessuno, ovviamente, le ha creduto...
La ignoranza di queste ragazze era risibile. Molte di loro erano delle delinquenti comuni. Eppure dicevano, "quando sarò ministra dell'Interno", con tale convinzione da ricordarmi la frase di Lenin: "ogni cuoca può governare lo Stato"... Una di loro era già stata in carcere perché, all'epoca quando faceva la prostituta, aveva tagliato l'orecchio a un tizio. L'"ammalata", che era la leader di tutte loro, le diceva: "Questa volta sarà diverso. Questa volta, quando esci, saresti eroe nazionale..."
Una volta, in una conversazione, le ho raccontato che il governo degli Stati Uniti mette nel carcere a vita dei bambini di 13 anni. L'"ammalata" ha ribattuto: "Ogni governo ha il diritto di far passare le leggi che vuole. Non abbiamo il diritto di giudicare nessun governo". È seguita una pausa incomoda quando lei si ha resa conto di quello che ha detto. "E allora perché giudicate il vostro governo?" ho chiesto io. "Perché noi stiamo il popolo nicaraguense!" ha risposto lei con una frase che, per i golpisti, giustificava qualsiasi cosa.
Si avrebbe potuto compilare un libro con le stupidaggini che dicevano. Un ragazzo che non ha mai viaggiato all'estero, mi ha detto che Nicaragua era il peggior paese al mondo. Un altro che, lui, ha viaggiato molto, diceva, invece, che Nicaragua era il miglior paese che conosceva. "Poca burocrazia, i prezzi sono bassi, la vita è facile... Abbiamo un solo problema: il governo è malo". Un altro era stato deportato da Canada perché aveva inflitto lesioni a un canadese. Mi diceva di odiare Nicaragua. "Perché?" "Perché non è Canada".
Erano stupidi, si. Ma le loro facce pallide... Quando, dal Chipote, mi hanno trasferita nel carcere femminile "La Speranza", sono stata messa con i criminali comuni. I "politici" erano strettamente isolati; non mi era permesso avvicinarmi a loro, neanche per passargli dell'acqua. Pesa sulla mia coscienza il fatto di non aver riempito la bottiglia per una "politica", quando l'acqua era venuta a mancare... Ho sempre obbedito a tutte le regole del carcere, non certo per paura, ma per quel sentimento di lealtà che era sopravvissuto al mio incarceramento. Eppure cominciavo a sospettare che questa lealtà non corrispondeva, esattamente, all'onore. Quando passavo vicino alla loro cella, mi gridavano: "Paramilitare psicopatica, che il piede ti cada!"... Ciò nonostante, sentivo compassione per loro. Pesava sulla mia coscienza poter uscire dalla mia cella dalla mattina fino alla tarda sera, mentre loro non uscivano quasi mai... Forse, se mi avessero trattato male in carcere, o se avesse passato molti anni lì dentro, non avrei sentito nessun rimorso. Mi sentivo male perché stavo bene. Le autorità vegliavano su di me come se io fosse una bambina. Prendevano la mia parte in ogni conflitto con le altre detenute; quando alcune ragazze mi hanno fatto del bullismo, mi hanno concesso una cella piccola tutta per me. Mi regalavano cibo e Coca Cola; chiamavano la psicologa quando vedevano che io stesse piangendo... Forse, per la prima volta nella mia vita, mi sono sentita davvero amata. Amavo i miei carcerieri. Sentivo che provassero un affetto particolare per me... Ma loro, le autorità della "Speranza", trattavano bene a tutte noi detenute comuni. Più che carcere, sembrava un asilo nido per bambini maleducati. Mi fa ridere ricordare alcuni episodi. Ad esempio, ogni mattina dovevamo fare la fila per un conteggio. Una quindicina di persone se ne fregava sempre: restavano nel letto o si facevano la doccia. Una volta una tenente ha intentato di svegliare una detenuta sbattendo le dita sul suo letto di metallo. La ragazza ha fatto irruzione in bel mezzo del conteggio, furiosa: "Come avete osato! Quella spudorata mi ha svegliata! Mi ha fatto paura! Badate bene che sia la prima e l'ultima volta che lo fa! E poi avevo già detto che non verrò al conteggio prima che mi concedano un'intervista personale con la direttrice!" Non posso neanche immaginare come avrebbero risposto a una così in un paese che non fosse Nicaragua...
Un'altra volta ci volevano togliere la TV per 24 ore. Secondo le regole, doveva essere spenta alle nove di sera, per lasciar dormire quelle che volevano dormire. Le ragazze, invece, guardavano la TV fino a mezzanotte... Quando lo hanno tolto per punizione, "le telespettatrici" hanno cominciato a colpire il portone, gridando, "ridateci la TV, canaglie!". Dopo mezz'ora di questa batteria, era venuta tutta l'amministrazione, e si era limitata a ridarci la TV....
Mangiavamo un piatto di carne ogni giorno. Avevamo un nostro giardino con alberi fruttiferi, un posto medico con dottori e infermieri. Quelle che volevano lavoravano. Altre studiavano; c'era anche la possibilità di finire l'università agraria. Io avevo una gatta perennemente incinta nella mia cella; altre ragazze adottavano uccellini e cuccioli. C'erano due cani neri chiamati "Nero" e una cagna bianca chiamata "Bionda". Nella notte si ascoltava la voce acuta della mia amica: "ufficiale, portami il cagnolino!" A Pasqua, le autorità ci hanno comprato una piscina: in Nicaragua, è una tradizione di andare a nuotare a Pasqua. Spesso, mettevano la musica dagli altoparlanti, e le ragazze ballavano in coppie, imitando l'atto sessuale, mentre le spettatrici ridevano. Altre volte, giocavamo a pallone... Io avevo letto quasi tutti i libri della biblioteca del carcere, piena, per la mia fortuna, di letteratura politica. Poi un giorno una ragazza mi ha regalato delle matite a carbone, e ho scoperto, con grande sorpresa, di avere un talento per il disegno. In carcere sono vietati le fotocamere; i ritratti a matita, quindi, sostituiscono le foto. In tante mi chiedevano di farle un ritratto per regalare alla mamma o al fidanzato...
C'erano delle feste organizzate dalle autorità del carcere, e delle attività cristiane ogni giorno. Per noi seicento ragazze, c'erano 5 psicologhe, che ci stavano vicino in qualsiasi tristezza, qualsiasi lutto. E di lutti ce n'erano. A una ragazza è morto suo figlio di cinque anni, lo stesso giorno che l'avevano portato a vederla. Dopo la visita i familiari sono andati al fiume, e il ragazzino si è annegato. Le grida della mamma risuonarono per tutta la carcere. Questa era la più grande sofferenza di queste ragazze detenute: essere separati dai loro figli. Vederli piangere quando finiva la visita. Non poterli difendere. Perderli, a volte...
A me non mi hanno mai portato la bambina. La prima notte nel Chipote, l'ho sognata. Nel sogno, lei era scappata dal asilo nido dove l'avevo lasciata e mi stava cercando per l'autostrada, nuda, con i capelli sporchi al vento. Poi, alcune notti dopo, l'ho sognata giocando in una casa grande, "con tante stanze per i bambini quanti ci sono parchi a Managua". Ho pensato che "doveva essere la casa del Comandante". Quando mi ero svegliata, non avevo più preoccupazioni: lei era sotto la tutela del "buon governo", e il governo non poteva certamente trascurare nessun bambino. Il console di Russia era venuto più volte chiedendomi di dare il mio consenso perché mia mamma prendesse l'affidamento della bambina, ma io ho sempre rifiutato. Mia mamma non ha mai saputo dimostrarmi amore. Mio padre l'ha stuprata davanti a me quando lei gli ha chiesto il divorzio; avevo quattro anni. Per lei, sono sempre stata la figlia di quel uomo. In carcere, la polizia ha saputo farmi sentire più amata di quanto mi sono mai sentita a casa di mia madre. Mi facevo la riflessione: "se io sto così bene in carcere, mia figlia deve stare ancora meglio nella casa famiglia statale". C"era un"altra cosa ancora: la mia bambina era il mio unico tesoro. La volevo affidare a chi volevo più bene, a chi stimavo più degno di lei. Non potevo offrirgli miglior regalo al mio governo...
A volte, penso che quelli di noi che seguiamo alla cieca un Duce o un Comandante, stiamo dei figli cresciuti allo sbando. Cerchiamo, nell'"uomo forte", la protezione di un padre; il partito diventa, per noi, la famiglia che non abbiamo mai avuto...
Avevo un'unica preoccupazione per mia figlia: che il console poteva portarla via da Nicaragua. Così, infatti, è avvenuto quando sono stata condannata; non avevano più bisogno del mio consenso. Non hanno voluto dirmelo, ma io ho sentito lo stesso che lei era ormai lontana...
Mentre ero in carcere, è morta mia nonna, che era la persona che più affetto mi ha mostrato quando ero piccola. Nella sua unica e ultima lettera, ha scritto che prega per me ogni giorno... Poi, il suo cuore non ha retto: l'hanno trovata morta sul pavimento. Il console mi ha informata della sua morte due settimane dopo. Ma il giorno che lei è morta, un gufo ha volato vicino alla mia cella. Linda, la ragazzina nella cella accanto, mi ha detto: "quando un gufo ti vola vicino, bisogna bestemmiarlo; se no, porta morte". Aveva diciannove anni, ma non le avrei dato più di quattordici... Era quasi sempre in isolamento. Una volta, perché ha cercato di scappare attraverso il tetto: ha detto che era andata a cercare le scarpe che erano caduti per la finestra. Tutte le altre volte finiva in isolamento per le risse. L'astinenza dalla cocaina la esasperava. Litigava con tutti... Anche le ragazze tossicodipendente come lei soffrivano molto in carcere; e Linda aveva cominciato a assumere droga a 12 anni... Si tagliava sempre, non come si tagliano i liceali depressi, ma con forza: tutto il pavimento della sua cella diventava rosso. Gridava quando la ricucivano... Le ho voluto bene alla Linda, coi suoi capelli corti che la facevano sembrare un ragazzino, sempre in movimento, sempre bugiarda, eppure, sempre sincera nel suo amore e nel suo odio. All'inizio, stiamo state amiche; avevamo tutto in comune. Poi, ho finito per litigare con lei. Nell'ambiente criminale, la lealtà è il valore più alto, così come lo è nell'ambiente politico. Linda aveva fatto parte di una banda di adolescenti tossici che rubavano nelle case. La lealtà ai suoi "brother" era per lei sacra. Non sono riuscita a spiegarle che io non ero sua "brother". Lei voleva che io l'aiutasse a far passare degli oggetti proibiti; voleva che io usasse ciò che lei pensava fosse la mia "influenza" nel suo favore. Non poteva certo capire che quella lealtà che lei sentiva per i suoi compagni detenuti, io la sentivo per la polizia. Erano sandinisti come io; erano camerati miei. Questa era la mia tragedia: ero una detenuta che si identificava con i suoi carcerieri. Nel carcere, anch'io ho sofferto, ma la mia sofferenza più grande non era occasionata da nessuna privazione, bensì dal mio stesso status di detenuta. Un detenuto che cos'è, se no nemico dello Stato? Io ero, quindi, nemica per lo Stato che idolatravo... Ogni gesto di sfiducia, ogni perquisizione della mia cella, mi occasionava dolore. Per quanto assurdo fosse, per poco gli volevo chiedere: "Ma mi prendete per una criminale?" Eppure, non potevo lamentarmi che la polizia mi tenesse sottocchio. Gli ho dato delle buone ragioni... A lungo, hanno pensato che qualcuno mi avesse pagata per attaccare il padre. La CIA? Sembrava probabile. Quando una detenuta ha suggerito, per scherzo, che io avesse un telefonino, le autorità sono andate in panico: l'hanno cercato, credo, nel culo di ogni mosquito... Poi tutta la baracca mi ha guardata di malocchio: non hanno mai avuto una perquisizione così meticolosa e hanno perso, stavolta, tutte le loro forbici e aghi. Mi dava soddisfazione, soprattutto, vedere la faccia da morta della ragazza che mi aveva calunniata...
Eccezione fatta per Linda, non ho fatto amicizia con nessuna delle ragazze, anche se ci parlavo volentieri.
In carcere c'era un detto, "amiche non ci sono, ci sono solo conoscenze". Da un lato, la disgrazia comune suscitava uno spirito di solidarietà; da l'altro, messe alle strette, le ragazze diventavano più cattive e più furbe. Ciò che proliferava di più in carcere, era la ipocrisia. Così era comune che le ragazze andassero a una funzione religiosa solo per ricevere un pacchetto con sapone, shampoo e carta igienica che distribuivano le chiese, oppure per incontrarsi con una fidanzata che viveva in un'altra baracca. C'era chi, dopo aver perso tutto, si era sinceramente convertito a Dio; ma per distinguerle dagli ipocriti, bisognava aspettare che uscissero dal carcere. Ancora più difficile era sapere chi te voleva bene. Spesso, mi sentivo smarrita. Mi chiedevo: questa ragazza che condivide il suo cibo con me, lo fa di cuore, o perché le autorità le avevano chiesto di prendermi sotto la sua tutela? E quest'altra che vuole far amicizia con me, lo fa perché le sono simpatica, o perché è curiosa di sapere dettagli sul mio caso? Avevo imparato a diffidare di tutte. Sapevo di trovarmi in un luogo oscuro, dove ogni crimine era rappresentato. 99% dicevano di essere innocenti; e 99%, probabilmente, erano colpevoli...
C'era "sorella Marlene", una autoproclamata pastora evangelica, che era in carcere per la quinta volta per furto aggravato. Prima di incontrare lei, pensavo che gli psicopatici non esistevano. Sorella Marlene mi ha fatto ripensarci. Manipolava le altre detenute abilmente, facendosi regalare Coca Cola per preghiere e profezie. A tutte diceva che "usciranno pronto da questo luogo": lo Spirito Santo gliel'aveva rivelato. La gente è sempre pronta a pagare per la speranza... Poi c'era doña Letty, la moglie del fu sindaco di Tegucigalpa, la capitale di Honduras. Veniva da una famiglia di politici ereditari, e aveva milioni di dollari nella banca statunitense. Poi un giorno ha commesso un errore fatale: ha pensato che Nicaragua era come Honduras, e ha deciso di lavare lì 79 milioni di dollari in proprietà immobiliari. Quando l'ho conosciuta, era alla fine della sua sentenza di 10 anni. L'unico lusso che lei aveva in carcere, era un ventilatore... "Tutte le ragazze che vedi lì sono in carcere per rubare borse nel mercato. Io, invece, sono qui per 79 milioni" diceva con orgoglio, come se fosse un titolo d'onore. Parlava di Daniel Ortega con un sincero rispetto: sicuramente, non aveva potuto immaginare che un politico rifiuterà tutte le sue offerte in cambio della libertà. Diceva amaramente: "Gli azzurri e bianchi sono degli imbecilli... Daniel Ortega non è un corrotto. Lo so..."
Frequentavo anche Maricruz, una ragazza di Costa Rica che in carcere sembrava fuori luogo. Non apparteneva alla malavita; era come un cagnolino domestico che si era ritrovato nel bosco con i lupi. Soffriva più delle altre. La vedevo felice solo quando la sua famiglia veniva a trovarla... La famiglia la amava molto; facevano un sacrificio enorme per venire da Costa Rica ogni mese. Anche Maricruz amava molto i suoi. Eppure, una volta, quando le ho chiesto che cosa avrebbe preferito: essere in carcere e avere un buon rapporto con la sua famiglia, oppure uscire e non vederli mai più, ha risposto: prefirerei essere libera. Ho appezzato molto la sua sincerità...
In carcere, la libertà era un valore supremo, più importante di Dio, più importante, addirittura, della famiglia. Solo il danaro era, per alcune, più importante ancora. Una ragazza che mi ha voluto bene, Yeleni, era in carcere per colpa del suo marito già morto, chi era stato il capo di una gruppo criminale. Yeleni era una delle poche persone che, secondo me, non mentivano quando dicevano di essere innocenti. Il marito era stato un violento che la maltrattava; Yeleni prendeva psicofarmaci perché sognava il suo fantasma... Una volta mi ha detto che per uscire dal carcere le bastava rinunciare alle proprietà del suo marito, comprati con i profitti della droga. Ma lei preferiva affrontare il processo. "Come farò se mi ritrovo senza un soldo?"
Poi, c'erano delle "celebrità". Di Yuri si sapeva che era in carcere per l'assassinato atroce di un'adolescente, e che una volta, nella cella dell'isolamento, ha intentato di impiccarsi. Un'altra donna aveva venduto bambini per organi: non ho mai potuto scoprire chi era, talmente era invisibile. Il suo letto era completamente coperto con lenzuola a modo di grotta. Mi hanno detto che era una delle signore in sovrappeso che guardavano sempre la TV... Un'altra donna, Karelia, aveva bevuto sangue del suo professore universitario, ed era lì da 22 anni. Insegnava nella scuola del carcere e non aveva nessuna malizia ma tanta, troppa stanchezza negli occhi... In carcere ho saputo che non è mai possibile distinguere un assassino da un borseggiatore: non hanno nessun segno di Caino sulla fronte. La maggioranza delle ragazze erano in carcere per droga; a loro, la detenzione aveva, forse, salvato la vita... Molte erano analfabete; avevano cicatrici da coltello e d'arma da fuoco sul corpo, e parlavano un loro linguaggio di strada che mi insegnavano, in cambio di insegnarle qualche parola di inglese.
Pensavo - penso ancora - che le persone che incontriamo ci possono insegnare qualcosa che non è scritto nei libri. Non dobbiamo disprezzare nessuno se voliamo capire il mondo dove ci tocca vivere. In carcere, ne ho avuto la conferma. A queste delinquenti comuni, facevo, a volte, delle domande difficili, ad esempio, "Che cos'è l'amore?" Non avevano la mia facilità nell'articolare le idee; eppure, spesso dicevano delle cose profonde a cui io non ho mai pensato... Una ragazza mi ha detto: "non è amore se ti porta a far del male; non è amore se ti fa infelice". Magari fosse così! Magari non ci bruciasse come l'acido, lasciando una cicatrice a forma di un nome. "L'amore è una merda" ha detto un'altra. Un'altra ha scritto su un pezzettino di carta: "l'amore è la cosa più bella che ci sia"...
Il carcere era un luogo di apprendisaggio per noi tutte; imparavamo a convivere, a apprezzare le cose semplici, ad amare la nostra famiglia che, tutte, avevamo sacrificato alle nostre passioni... In carcere, usciva allo scoperto chi eravamo: tutte le nostre debolezze e tutte le nostre virtù...
In occasione di ogni festa, arrivava il perdono presidenziale, e un centinaio di ragazze uscivano insieme. Non era impossibile che una ragazza ricevesse la sentenza di trent'anni di carcere e uscisse dopo sei mesi. Allora si toglievano l'uniforme azzurro della carcere e si vestivano di rosso. Prima di varcare la soglia, cantavano l'"Inno di Vittoria", un inno evangelico che, tutte, sapevamo di memoria...
In Giulio, mi avevano trasferita nel ospedale mentale. Ho sofferto di bipolarismo da piccola; in carcere, pero, la mia malattia si è peggiorata. Avevo diverse fobie. Sentivo claustrofobia negli spazi piccoli; pensavo in continuazione che qualcuno mi sospettasse di qualche colpa immaginaria. Una volta, in un momento di depressione più forte, ho bevuto il repellente contro le zanzare... Non sono a conoscenza del verdetto finale del medico. Sicuramente, dagli esami a cui sono stata sottoposta, è uscito fuori che la mia malattia è stata sottovalutata al momento del processo. Cosi, dei 8 anni a cui sono stata condannata, ho fatto solo 8 mesi di carcere. 8 mesi è poco. Eppure, è tanto...
Nel ospedale mentale, all'inizio sono stata ricoverata nel reparto dei casi gravi. Gli schizofrenici, gli epilettici, i bipolari come me. Non avevano scarpe. A volte, facevano delle risse per un bicchiere di plastica o un fermacapelli... Quando c'era buon tempo, gli infermieri ci permettevano di uscire nel cortile, e allora raccoglievamo i mango dolci caduti dagli alberi. Una ragazza, invece - dico che era una ragazza, pero lei sembrava non avere età - era sempre rinchiusa nella sua stanza. Quando era piccola, è stata investita da un carro; la trauma al cervello l'ha fatta estremamente aggressiva. Mi hanno prevenuta di non avvicinarmi alle sbarre della sua stanza; poteva afferrare la mia mano e tirarmi a se, per poi cercare a strangolarmi. Io, pero, sentivo della pena per lei: sapevo come ci si sente a essere rinchiusi. E lei, a contrario di me, non aveva nessuna colpa. Mi avvicinavo spesso a lei e le davo la mano. Lei la prendeva, felice, e cominciava a raccontarmi nel suo balbettio inintelligibile: "È morto papà... È morta mamma..." Poi, di repente, i suoi occhi si offuscavano. Io sentivo il pericolo e cominciavo a consolarla con parole dolci; quel sguardo, allora, pian piano spariva. Dopo due giorni, mi hanno trasferita nel riparto con gli anziani; sicuramente, avevano paura che io mi farei ammazzare da quella ragazza...
Giustamente allora è venuto l'anniversario della Rivoluzione sandinista: il 19 Giulio. Seduta nel cortile dell'ospedale, sotto gli alberi fruttiferi, ascoltavo, da lontano, le canzoni: le nostre canzoni. Mi faceva male, infinitamente male non poter essere in piazza con tutti quelli che continuavo a considerare i miei camerati. Quando il discorso del Comandante è stato trasmesso sulla radio, ho chiesto alle guardie di poter avvicinarmi all'apparecchio. Non me l'hanno permesso; la mia richiesta gli era apparsa strana. Non sapevano che ero sorda. Piangevo a fiotti, perché sentivo la voce del Comandante, ma non potevo distinguere nessuna parola...
Poi un giorno è venuto il console per dirmi che ero libera, ma che dovevo tornare in Russia il giorno dopo. Ho pianto. Sapevo che, allora, tutto era davvero finito... Protestare, ribellarmi, era ormai inutile. Potevo, forse, compiere un gesto più disperato di quello che avevo già fatto?
Il console non capiva le mie lacrime. Mi diceva di non preoccuparmi: non mi stavano trasferendo in un carcere russo. Mi stavano mettendo in libertà. In Russia, avrei potuto fare ciò che volevo. Avrei rivisto mia figlia...
Non poteva capire che l'amore non ragiona. Che io avrei preferito essere prigioniera in Nicaragua, che libera in qualsiasi altro posto.
Mi hanno messo sul aereo dopo avermi fortemente sedata. Avevo chiesto di regalarmi, come un dono d'addio, un fazzoletto rosso-nero, di quelli che portavamo durante le camminate... A volte, quando mi sembra di aver sognato questa storia, lo prendo in mano. È l'unica cosa che mi rimane. Questo e una cicatrice dell'acido sul piede...